FILM


BRUTTO    COSI' COSI'    BELLO    CAPOLAVORO

L'ultima luna di settembre
Ėrgėž irėhgüj namar • Mongolia, 2022 Regia di Balžinnâm Amarsaihan

mymovies: Ma davvero è possibile appassionarsi ad un film girato in Mongolia, in mezzo a pianure interminabili, e senza neanche una battaglia, uno scontro epico, senza neppure Gengis Khan, ma solo alcuni personaggi di poche parole, quasi tutti con la faccia di Jack Palance cotta dal sole, e tanta tanta erba, cavalli, pecore, tende, silenzi? 
Sì , è possibile. Anzi: ne L’ultima luna di settembre, portato in Italia da Officine Ubu, ti sembra di ritrovare il respiro dei grandi western, ti sembra di vedere l’unico western possibile al giorno d’oggi. E ti sembra di cogliere, di nuovo, i sentimenti del Monello di Chaplin, esattamente cento anni dopo. O di Ladri di biciclette (guarda la video recensione). Qualcosa di forte, raccontato con attenzione, con delicatezza. Ma anche con quella forza assoluta, quella innocenza che il cinema occidentale ha perduto da tempo. 
Già la prima inquadratura  è memorabile, impensabile: un uomo, in piedi su un cavallo, che cerca di tener su un palo. Su un carretto, sotto, un uomo anziano, sdraiato. Che cosa stanno facendo? Perché? Issato su quel palo c’è un vecchio telefono cellulare. L’uomo in piedi sul cavallo sta cercando di alzare il telefono fino all’unico punto, in quell’immenso spazio, in cui riesce a trovare campo. La telefonata alla fine arriva. Raggiunge un uomo che vive in città: forse Ulan Bator, forse altrove. Una voce gli urla di venire subito: un uomo sta morendo. L’uomo che ha fatto da padre alla persona che vive in città. 

È la storia di un ritorno, un ritorno alle radici: un po’ come il ritorno di John Wayne in Un uomo tranquillo. Ma per il protagonista che torna a casa, nel suo villaggio natale, non ci sono ragazze irlandesi dal carattere forte. C’è un ragazzino, faccia da scugnizzo orientale, pochi anni e tanta grinta. Un ragazzino che si atteggia a duro, ma a malapena riesce a montare su un cavallo. Un ragazzino che ha imparato a fare la lotta, ma non a leggere e a scrivere. 

Ci vuole tutto il tempo necessario, affinché fra l’uomo robusto, taciturno, dalle spalle larghe e il ragazzino vivace, orgoglioso, impertinente si sviluppi un rapporto di confidenza, di lealtà, di affetto. Sono due orfani, l’uomo e il ragazzino di dieci anni. Tutti e due hanno imparato a cavarsela: ma solo uno dei due sa inghiottire grandi sorsate di solitudine senza un lamento, senza una parola. 

Per chi ha fame di dati, siamo nella provincia dell’Hentij, una delle più desertiche della Mongolia. Nel film, tratto dal romanzo breve “Tuntuulei” di T. Bum-Erden, il protagonista adulto è interpretato dallo stesso regista, Amarsaikhan Baljinnyam. Il quale è un regista al suo esordio, sì, ma come attore è ampiamente conosciuto: è una star del cinema d’azione mongolo, ha vinto nel 2012 il premio come miglior attore ai Mongolian Academy Awards, e fra il 2014 e il 2016 ha preso parte alla serie originale Netflix Marco Polo. Il bambino, che nel film si chiama Tuntuulei, ha dieci anni e si chiama Tenuun-Erdene Garamkhand.

È una storia d’affetto, una storia di rapporti umani che crescono, e che non vengono raccontati o definiti dalle parole, ma vengono sillabati dai gesti, dai silenzi, dalla semplice vicinanza. È la storia di due persone sole, in una Mongolia rurale che assomiglia a una riserva di nativi americani: anziani pieni di rughe, e adulti preda dell’alcool. Mentre il nuovo avanza, nella forma di un macchinario agricolo. 

Mentre si alternano campi lunghissimi, orizzonti che tagliano il due il fotogramma, e primi piani attenti ma non invadenti – difficile spiegarlo: viene quasi da parlare di “rispetto” verso gli attori – non c’è niente che ci prenda per mano. Neanche la  musica fuori campo: solo il suono di un’armonica, suonata dal protagonista, Tulgaa, e comprata a caro prezzo dall’uomo che gli ha fatto da padre: “L’ho scambiata con due pecore”. 

È un film scarno, eppure complesso, per tutto quello che ci fa percepire, nell’universo del non detto. Un film che rasenta il documentario, mentre racconta un mondo rurale che sembra scolpito nei secoli, ma probabilmente è prossimo alla fine. Ma anche un film capace di scavare nell’anima dei suoi personaggi, di quelle due vite sull’orlo di diventare un nucleo familiare. Ci dice, se mai un film lo ha detto, che cosa sia voler bene, che cosa sia aggrapparsi a qualcuno, per non sentirsi soli nell’universo. Che poi l’universo abbia le sembianze di una pianura infinita che si chiama taiga, è solo un caso. 

Öndög
Öndög • Mongolia, 2019
Regia di Quan'an Wang

Una jeep con a bordo due poliziotti si avventura nello sterminato paesaggio notturno della steppa mongola, fermandosi soltanto quando la luce dei fari rivela il corpo senza vita di una donna che giace nuda nell'erba. Inizia così l'indagine sul delitto, che coinvolgerà le autorità locali, in particolare il comandante e una giovane recluta, i dottori del paese più vicino, e una mandriana in sella a un cammello, il cui fucile è l'unico strumento in grado di annullare le enormi distanze del territorio.

mymovies: Le premesse sono quelle del giallo, ma bastano pochi minuti per capire che il tipo di giallo che interessa di più a Wang Quan'an è quello bruciato dei fili d'erba sferzati dal terrificante vento della steppa, e quello ambrato degli stupendi tramonti che riducono gli esseri umani a comprimari dell'inquadratura. Il delitto e l'indagine che ne segue sono pieni di ellissi; c'è più vita che morte, più filosofia che castigo, nel settimo film del regista cinese, il quale aveva già dimostrato una fascinazione per la Mongolia nel film che gli valse l'Orso d'Oro a Berlino nel 2007, Il matrimonio di Tuya. Tornando a quelle atmosfere bizzarre (dopo la parentesi grandiosa e ingessata di White Deer Plain), Quan'an sfrutta le performance sorprendenti di attori non professionisti e l'assenza di una vera e propria sceneggiatura per evocare un mondo fatto di connessioni spezzettate, in cui le figure di autorità stanno tutte per andare in pensione e le forze più sovversive sono quelle fertili e femminili dei personaggi che vengono dai margini. Come se non bastasse, a questa intrigante meditazione sui simboli che generano la vita, Öndög aggiunge un livello di pura maestria tecnica che da solo giustificherebbe il film.
LA PRINCIPESSA E L'AQUILA
The eagle huntress • Gran Bretagna, Mongolia, Usa 2016
Regia di Otto Bell narrato da Lodovica Comello

Siamo nei territori occidentali della Mongolia, tra i magici monti dell'Altai, rifugio di leggende come l'almas (lo yeti mongolo) e del leopardo delle nevi. Ma anche della popolazione di origine kazaka, legata indissolubilmente a tradizioni millenarie, come l'impressionante canto di gola (khoomi) e la caccia con le aquile, un'attività venatoria che si perde nella notte dei tempi, riservata ai soli uomini. Almeno fino all'arrivo di una tredicenne, Aisholpan Nurgaiv, che decide di mettersi in competizione diventando la "principessa delle aquile". La parte migliore del film sono i maestosi scenari. Trailer ufficiale

Corriere della Sera: È stato uno dei film più applauditi al «Sundance Film Festival» del 2016. Racconta la storia della tredicenne Aisholpan Nurgaiv, la prima ragazza kazaka che caccia con l'aiuto di aquile reali sui monti Altai, in una regione aspra e inospitale della provincia di Bayan-Olgii, in Mongolia. Da secoli le tribù nomadi vanno a caccia con i predatori sulle aspre e isolate montagne per rimediare cibo e pelli, ma la «caccia con aquila reale» è un’arte millenaria tradizionalmente riservata ai soli maschi. Tuttavia, grazie alla sua caparbietà e alla sua grande passione, Aisholpan ha voluto seguire le orme del padre e del fratello maggiore, imparando a cacciare a cavallo (conigli e volpi) con l'aquila reale e sfidando generazioni di patriarcato kazako. Alla fine Aisholpan parteciperà al Festival dell’Aquila Reale, l’evento annuale che mette in competizione i più grandi addestratori della Mongolia (Francesco Tortora)
L'ULTIMO LUPO
Wolf totem • Francia 2015
Regia di Jean-Jacques Annaud con Shaofeng Feng e Shawn Dou

Prendendo spunto dal provocatorio best seller cinese di Jiang Rong ("Il totem del lupo", edito in Italia da Mondadori e il più venduto nella storia della Cina dopo il Libretto Rosso di Mao), Jean-Jacques Annaud - il regista de Il nome della Rosa - ci trasporta in un racconto epico fra Pechino e le steppe della Mongolia. Lo studente Chen Zhen viene inviato tra i pastori per istruirli, ma alla fine sarà il giovane a ricevere preziose lezioni di vita e a prendere coscienza dei limiti del regime maoista. Si creerà così un legame fortissimo con la natura e in particolare con i lupi: la situazione diventerà drammatica quando il Governo cinese disporrà di eliminare tutti i lupi e i loro cuccioli dalla regione. Da qui la frase lancio del film: "Non si cattura un dio per farne uno schiavo". Trailer ufficiale

Film Tv: Annaud ritrova i suoi temi preferiti: l’incontro/scontro tra uomo e natura, l’osservazione e la resa cinematografica del comportamento animale. E li impacchetta in un blockbuster ecologista che si vorrebbe per famiglie (ma qualche crudeltà sulle bestiole, più suggerita che mostrata, potrebbe traumatizzare i piccini) e sulla strada abbandona ogni sottigliezza: didattico e didascalico, L’ultimo lupo soffre personaggi abbozzati, per nulla approfonditi e incastrati dentro archetipi banali e manichei, appiattisce gli spunti problematici e le asprezze politiche del libro, dimentica sullo sfondo il potente conflitto storico-culturale tra modernizzazione e usi antichi. Di contro, il film è affollato di sequenze naturalistiche mozzafiato, tra paesaggi di bellezza acerba e dolorosa e scene di caccia ansiogene e vivide. Può bastare?
REMOTE CONTROL
Mongolia-Germania 2013
Regia di Byamba Sakhya

Premiato a sorpresa al Busan Film Festival 2013, "Remote control" è la storia dell'adolescente Tsogoo che ogni giorno lascia il suo villaggio per vendere latte in città. Con il padre urbiaco e la matrigna fuggita, i soldi gli servono per mantenere gli studi del fratello. Durante una delle sue spedizioni, si innamora della matura Anu, in crisi con il suo compagno. Guarda il trailer

My Movies: È sempre un momento di piacevole rivelazione quando ad un festival si scopre un'opera da un paese di cui di rado vediamo immagini filmate. È un piacere ancor più rincuorante quando in queste opere di paesi in cui si produce poco cinema - perché fare cinema laggiù è ancor più arduo di quanto già non lo sia in genere - si ritrova una freschezza, un'ingenuità e una sincerità da albori del cinema, da scoperta di una magica macchina di racconto che tramuta l'immaginario in realtà da condividere. E tutto ciò è quel che rende Remote Control un piccolo gioiello grezzo, in cui s'intravvede un vero desiderio di raccontare e condividere storie e sogni. Il regista Byamba Sakhya esordisce qui nel lungometraggio narrativo (alla tenera età di cinquant'anni), dopo aver realizzato alcuni documentari, come regista o direttore della fotografia. Il suo è un film fragile e giovanile, commentato da musiche un po' alla Joe Hisaishi che altrove parrebbero stucchevoli, ma che calzano invece alla perfezione per la storia di Tsogoo.
THE MONGOLIAN DREAM
Usa-Mongolia 2012
Regia di Sven Lindahl Ranelf

Documentario senza infamia e senza lode che racconta, dal 1999 ai giorni nostri, l'evoluzione del "sogno mongolo", attraverso gli occhi e l'esperienze di alcuni dei protagonisti della città e della campagna. Si parte dalla tradizionale caccia con l'aquila per arrivare alle nuove aspirazioni della capitale Ulaanbaatar. Interessante ma niente di nuovo sul fronte. Guarda il trailer

MONGOLIAN BLING
Mongolia 2012
Regia di Benj Binks con Gennie, Gee e Quiza

C'è più Mongolia in questo documentario a ritmo di rap che in tanti film ben più celebrati. Si comincia con le immagini in bianco e nero del 1991, con il crollo del comunismo e la ricerca di una nuova identità da parte della popolazione. Una risposta per il XXI secolo diventa quella della musica, e a sorpresa dell'hip hop, attraverso le interpretazioni di giovani pronti a raccontare una realtà non sempre gioiosa. Scritto e diretto dall'australiano Benj Binks. Guarda

Megan Lehmann: Una nazione hip-hop più impropabile sarebbe difficile da immaginare ma Binks trova la formula giusta in questo documentario acuto e rimtico: racconta così l'ascesa el rap nel gelo della Mongolia post-comunista. Dimenticate yurte, nomadi e Gengis Khan: qui siamo di fronte a un'avanguardia alternativa e a una scena musicale inedita per questa giovane democrazia. Seguiamo così un mix di giovani rapper che si confrontano su temi sociali come la corruzione del governo, l'alcolismo e il crescente divario fra ricchi e poveri.
GENGHIS - THE LEGEND OF THE TEN
Mongolia 2012
Regia di U. Shagdarsuren e D. Jolbayar con T. Altanshagai

Ennesimo film sull'epopea di Gengis Khan, ma finalmente "fatto in casa". "Genghis" è ovviamente il grande condottiero Gengis Khan, mentre "Ten" è riferito all'unità guerriera di base, l'aravt, composta da dieci unità, che diventano 100 per lo zuut, 1000 per il minghan e 10.000 per il temutissimo tumen. Durante una spedizione, il plotone di 10 uomini salva il figlioletto di un nemico in fuga prima di completare la missione. Inedito in Italia. Guarda il trailer

OPERATION TATAR
Tatar ajillagaa • Mongolia 2010
Regia di Bat-Ulzii Baatar con Dagvajamts Batsuck e Amarkhuu Borkhuu

Incredibile! Un film mongolo che non ci parla di steppe, deserti, guerrieri, sciamani, cammelli che piangono e cani gialli. La trama è invece quella di un poliziesco ambientato nelle strade di Ulaanbaatar. Un impiegato di banca viene licenziato: è l'inizio di una serie di rocambolesche vicissitudini tra commedia e noir. Jeremy Segay: Ha una certa freschezza, un senso di libertà totale e l'autoironia tipica dei film polizieschi. Guarda il trailer

Jeremy Segay: Ha una certa freschezza, un senso di libertà totale e l'autoironia tipica dei film polizieschi.
BABIES
Francia 2010
Regia di Thomas Balmès

Un documentario delicato e commovente che racconta il primo anno di vita di quattro bambini in altrettanti luoghi del pianeta, Namibia, Mongolia, Giappone e California. Il protagonista delle steppe mongole è Bayarjargal, dal momento del parto fino all'impatto con la dura e affascinante vita dei nomadi. Guarda l'inizio del film

Frederic e Mary Ann Brussat: Questo affascinante documentario diretto dal regista francese Thomas Balmès racconta i momenti preziosi della vita di quattro bambini durante il loro primo anno. Non ci sono narratori, commenti, o parole ma solo i gesti di questi bambini mentre cominciano la loro esplorazione del mondo che li circonda. Guardando questi piccoli protagonisti, ci troviamo in soggezione di fronte al mistero della vita, le meraviglie della crescita e il carattere distintivo della personalità umana.
THE WAY BACK
Usa 2010
Regia di Peter Weir con Jim Sturgess, Colin Farrell e Ed Harris

Dal regista dell'Attimo fuggente, Peter Weir, l'intensa e drammatica fuga dai gulag siberiani fino all'India, attraversando il deserto del Gobi. Sarà proprio l'ingresso in Mongolia a segnare la speranza per i fuggiaschi. Guarda il trailer

Maurizio Porro: Torna dopo anni Peter Weir (“Truman Show”) che nel suo stile esalta il difficile rapporto tra uomo e natura, confezionando un appassionato racconto che mantiene tutte le convenzioni ma con un senso “omerico” dell’epica.
I DUE CAVALLI DI GENGIS KHAN
Das Lied von den zwei Pferden • Germania-Mongolia 2009
Regia di Byambasuren Davaa con Urna Chahar-Tugchii

La cantante Urna promette alla nonna in fin di vita di portarle il manico a testa di cavallo del morin khuur (il violino mongolo) dove sono incise le parole della canzone Chingisiyn Hoyor Zagal, che danno il titolo al film. Comincia una ricerca tormentata nei segreti più reconditi della Mongolia. Guarda il trailer

Silvana Matozza: Un affascinante viaggio in terra mongola, come una grande metafora, inseguendo le orme delle antiche origini della sua musica popolare, dove la realtà confina col mito. A partire da uno strumento simbolo, un antico morin khuur, col manico a testa di cavallo ora spezzato in due, che una nonna ha preservato dalla distruzione durante la rivoluzione cinese e consegnato alla propria nipote, nella speranza che possa farlo rivivere. Con la sua storia, impressa sul suo legno, il testo quasi illeggibile e quasi da tutti dimenticato, dell’antica canzone “Chingisiyn hoyor zagal” (”I due cavalli di Gengis Khan”), leggenda sui valori nomadi di fierezza, unità, libertà, lealtà, generosità, tolleranza. Un lungo percorso di ricerca, verso la ricostruzione del violino e della canzone, che Urna Chahar Tugchi, nota cantante della Mongolia Interna, intraprenderà in omaggio alla nonna amata, e col personale desiderio di cantare a sua volta il prezioso brano. A Ulaan Baatar, capitale della giovane repubblica mongola, e poi verso i luoghi della storia e del mito di Gengis Khan. Nel Kentii, regione di nascita del condottiero, zone sacre, intrise di religiosità, dove forte è ancora la presenza della tradizione, Burchan o Chaldun, Karakorum, l’antica capitale dell’impero mongolo. Tra massicci rocciosi, praterie ventose, gelo e robusti cavalli, shamani, costumi, bevande e musica folk, dove conoscerà (e ci farà conoscere) un popolo ospitale che l’accoglierà e l’aiuterà, di cui condividerà riti e storie di vita.
HORSE BOY - L'AMORE DI UN PADRE
The Horse Boy • Usa 2009
Regia di Michel O. Scott

Tratto dall'omonimo libro di Rupert Isaacson (pubblicato in Italia da Rizzoli vedi sezione Libri), questo film documentario rievoca la storia del piccolo Rowan, bambino autistico di 6 anni guarito dalla Mongolia e dall'amore per i cavalli. L'esperienza fra nomadi, sciamani ed animali selvatici sarà la vera svolta per questa famiglia angloamericana che ha voluto così condividere la propria singolare esperienza. Guarda il trailer
 

My Movies: La prima cosa a stupire di Horse Boy è la dedizione documentaristica e l'occhio spietato con il quale i genitori hanno concesso di riprendere le crisi e la malattia del figlio. Non c'è niente di edulcorato e l'impressione è che si volesse rendere senza sconti lo sfinimento umano cui un figlio autistico a questo livello può portare dei genitori. Scelta significativa perchè aiuta a comprendere come sia stato possibile decidere di intraprendere un simile folle viaggio (si parla di giorni interi a cavallo e settimane in tenda con un bambino che urla di continuo e non è capace ad andare di corpo autonomamente) misurando la caparbietà degli esseri umani in campo, la caratura dei loro sentimenti, la forza della loro determinazione e facendoli passare immediatamente da persone reali a personaggi, identificabili per solo alcune caratteristiche salienti (la madre addirittura non ama cavalcare). Il viaggio degli Isaacson, quel che succederà prima con gli sciamani e poi al ritorno a casa, è materia da grandissima narrativa che solo una decade fa sarebbe arrivata al cinema sotto forma di cinema di finzione, come adattamento "tratto da una storia vera" (esiste una tradizione florida in materia di racconti su genitori che si battono per curare i propri figli) e non stupisce che in questo periodo di maturazione del documentario, inteso come genere, possa essere raccontata senza violenze finzionali ma mantenendo intatto il suo coefficente di impressionante realismo, i suoi volti normali, i suoi corpi medi e le sue reazioni mostruosamente normali. A parte questa scelta il resto del documentario però non brilla per sapidità e capacità di narrare la realtà, specie considerata l'eccezionalità della materia che maneggia. In più momenti si ha l'impressione che siano i veri eventi a salvarlo dalla deriva noiosa e monotona che sta prendendo e non la capacità del regista di creare un racconto a più livelli, sufficientemente complesso da associare al clamore dei fatti anche il fascino di una loro lettura da parte di un terzo soggetto, dotato di idee e visioni proprie che orchestra attraverso le immagini. Non solo i fatti (clamorosi di loro) sono presentati nella chiave più semplicistica possibile ma non sono nemmeno narrati bene (vedasi l'uso pessimo delle interviste). Apprezzabile unicamente la maniera in cui ogni esagerato sentimentalismo è rifiutato a favore di una contenuta esposizione di gioie e dolori. Nondimeno il pubblico può facilmente commuoversi.
SUR LA PISTE DU RENNE BLANC
Francia 2008
Regia di Hamid Sardar

Storia d'amore singolare ambientata fra gli Tsaatan, gli Uomini renna della Mongolia, sullo sfondo glaciale della taiga. Il nomade Quizilol è innamorato della bellissima Solongo il cui padre darà l'assenso al matrimonio solo dopo una "prova di coraggio" e di abilità: riuscire a creare una mandria di renne. Durante la notte però si scatena una bufera di neve e il capobranco fugge. Quizilol si mette così al suo inseguimento prima che l'animale oltrepassi il confine russo e si perda per sempre. Ma i nemici sono tanti, a cominciare dal gelo spaventoso. Suggestiva ricostruzione romanzata realizzata dalla casa cinematografica indipendente francese Zed. Premio al Festival di Trento 2009. Guarda il trailer

BABYLON A.D.
Francia 2008
Regia di Mathieu Kassovitz con Vin Diesel e Gerarde Depardieu

Il mercenario Toorop (Vin Diesel) deve scortare una ragazza (Melanie Thierry) dotata di straordinarie capacità preveggenti da un remoto monastero della Mongolia fino a Manhattan. Sarà un'odissea. Strizza l'occhio a "Blade runner" ma questa pellicola di Kassovitz è uno "sparatutto" senz'anima. Guarda il trailer

Paolo Mereghetti: Eric Besnard e il regista adattano liberamente il bestseller fantascientifico/avventista di Maurice G. Fantec Babylon Babies, già delirante di suo, ma in una stiracchiata ora e mezzo riescono solo a inanellare una stucchevole serie di sequenze d'aziopne senza curarsi di dare al tutto una parvenza di logica. Innumerevoli le traversie di lavorazione causate dalle liti di Kassowitz coi produttori americani, ma il sospetto è che se anche fosse filato tutto liscio l'esito non sarebbe comunque stato degno di nota. Depardieu soffocato dal trucco e ai minimi storici. Flop mondiale.
HYAZGAR
Francia-Corea 2007
Regia di Lu Zhang con Bakchul e Bat Ulzii

Per bloccare l'avanzata del deserto e far fronte alla solitudine dopo l'abbandono della moglie, il mongolo Hangai decide di piantare nella sabbia alberi estirpati dalla tempesta. Al romantico progetto collabora una rifugiata coreana col figlio. Meno fortunato del "Matrimonio di Tuya" ma altrettanto suggestivo. Guarda il trailer

Lorenzo Leone: All'interno di uno spazio cinematografico immenso come quello della steppa desertica, forse bisognava compiere la scelta opposta, abbandonando ogni didatticismo, ogni rigido schematismo estetico per lasciarsi guidare dal selvaggio istinto della natura. Neppure la timida riflessione metacinematografica, che si inscrive in un più ampio discorso sul confine tra reale ed irreale, riesce a produrre "senso" in maniera adeguata. Quel confine labile che i protagonisti provano sempre a varcare rimane così un territorio inesplorato e il sogno non rappresenta altro che una stanca fuga dal reale.
MONGOL
Russia-Kazakistan-Germania-Svizzera-Mongolia
Regia di Sergej Bodrov con Tadanobu Asano e Honglei Sun

Ricostruzione sontuosa e attenta della vita di Gengis Khan, attraverso sofferenze e trionfi e la preziosa presenza della moglie Chuluun. Candidato all’Oscar 2008 come miglior film straniero (Bodrov lo aveva già vinto con “Il prigioniero del Caucaso”), ha un impatto cinematografico hollywoodiano con scene estremamente realistiche. Guarda il trailer

Paolo Mereghetti: L'invenzione protofemminista della centralità discreta della compagna del condottiero è l'unico pregio della sceneggiatura. La coproduzione kolossal ha comunque altre mire, più visibili e meno risolte: realizzare un ibrido intelletual/spettacolare tra i blockbuster moderni (cion tanto di effetti digitali) e l'intimismo epico alla Kurosawa. Ma le ambizioni falliscono, sia commercialmente sia esteticamente, a cominciare dal ridicolo casting: la star giapponese Asano è fisiognomicamente poco credibile nel ruolo del protagonista
IL MATRIMONIO DI TUYA
Tuya de hun shi • Cina 2006
Regia di Wang Quanan con Yu Nan e Bater

La vicenda in verità si svolge nella Mongolia Interna, quella cinese, ma i profondi temi toccati sono quelli assoluti del contrasto fra modernità e tradizioni. Una giovane donna vive con il marito paralizzato e due figli. Cercherà un nuovo sposo che la aiuti a prendersi cura della famiglia. Orso d'Oro a Berlino 2007. Guarda il trailer

Paolo Mereghetti: La sceneggiatura (scritta dal regista con Lue Wie) alterna toni quasi da commedia d'amor cortese ad asprezze struggenti: e in filigrana racconta anche il dramma dei contadini dell'Asia rurale, spinti verso le grandi città che disintegrano le loro tradizioni in nome di un benessere solo apparente. Cinema lieve e senza segreti, forse già visto ma d'effetto, che i distributori italiani si ostinano a doppiare (e in modo deplorevole).
KHADAK
Belgio 2006
Regia di Peter Brosens e Jessica Woodworth, con Batzul Khayankhyarvaa

È la storia di un giovane pastore mongolo che ha la capacità di sentire gli animali a distanze lontanissime. È destinato a diventare sciamano, dopo essere stato costretto, insieme a tutti gli abitanti del villaggio, a trasferirsi in una città mineraria per essere impiegato negli scavi. Il "khadak" del titolo si riferisce alla sciarpa di seta, solitamenta azzurra, dal forte valore simbolico e benaugurante nella realtà buddhista tibetana. Guarda il trailer

Elisa Giulidori: Permeato da un aura magica, il film si apre come una favola, quasi a sottolineare il sapore esotico e fantastico che la Mongolia ha per noi occidentali, anche se poi la parte iniziale, ambientata nelle steppe, è quella rappresentata in modo più realistico, quasi un saggio antropologico. Il trasferimento in città rappresenta il punto di svolta delle vite dei protagonisti e anche della sceneggiatura che si perde in una sovrabbondanza di visioni che stordisce lo spettatore. Muta anche la regia, che passa da riprese ampie, dominate dalle linee orizzontali delle steppe, dove lo sguardo si perde tra cielo e terra, alle linee verticali e ai piani ravvicinati, che invece caratterizzano la vita all'interno della città. Tutto il film, che ha immagini bellissime, è però caratterizzato da un ritmo lento e pochissimi dialoghi. Queste peculiarità, unite a una sovrabbondanza di simboli, alcuni per noi sconosciuti come la filastrocca dei numeri, rende alla fine la visione un po' pesante.
IL GRANDE MATCH
La gran final • Spagna-Germania 2006
Regia di Gerardo Olivares

Dai cacciatori con le aquile dell'Altai mongolo, ai tuareg del Sahara fino agli indios dell'Amazzonia. Tre realtà remote unite dallo stesso singolare desiderio di assistere alla finale del campionato mondiale di calcio del 2002 (Brasile-Germania 2-0). Più documentario che film vero e proprio. Guarda il trailer

Paolo Mereghetti: Il regista usa non professionisti nella parte di se stessi e un approccio semidocumentario, ma non tenta neanche una riflessione sulla globalizzazione e sulla perdita delle tradizioni: è lieto di mostrare che tutto il mondo è paese e insegue un umorismo superficiale e paternalista; e ogni tanto fa capolino l'impressione di veder riproposto il cliché del buon selvaggio.
L'ELETTO
Le Concile de pierre • Francia 2006
Regia di Guillaume Nicloux con Monica Bellucci e Catherine Deneuve

Thriller coprodotto da Rai Cinema sullo sfondo della Mongolia più misteriosa ed esoterica. Una donna, interpretata da Monica Bellucci, adotta un bimbo mongolo che, al compimento del settimo anno, si rivela dotato di poteri che permettono di compiere riti di immortalità. Una vecchia idea, ma questa è peggio. Guarda il trailer

Paolo Mereghetti: Il tentativo è quello di battere il cinema hollywoodiano sul suo stesso terreno, copiandone non solo lo stile, ma anche i difetti: brutti effetti digitali e situazioni scontate; belli però i paesaggi della Mongolia fotografati da Peter Suschitzky. La Bellucci ha i capelli corti, si impegna e trova comunque il modo di spogliarsi.
IL CANE GIALLO DELLA MONGOLIA
Die Hoble des gelben Hundes • Germania 2005
Regia di Byambasuren Davaa con Nansal Batchuluun e Urjindorj Batchuluun

Nuovo commovente capitolo proposto dalla regista mongola, dopo “il cammello che piange”: una bimba trova un cagnolino in una grotta e lo tiene, contro il volere del padre che teme possa attrarre i lupi. Quando il cane salverà il fratellino dagli avvoltoi sarà il benvenuto. Guarda un estratto

Paolo Mereghetti: Dopo "La storia del cammello che piange", la regista-sceneggiatrice di Ulan Bator prosegue nell'esplorazione elegante e un po' leccata del "documentario narrativo" zoo-antropologico: i suoi temi sono l'inevitabile urbanizzazione delle ultime famiglie nomadi, la dispersione della tradizione, il mito della reicncarnazione. Molti momenti di stanca e qualche caduta retorica: ma i bambini attori non professionisti sono magnifici, e sia la sequenza con i minacciosi condor sia il finale non si dimenticano. Il cane del titolo è quello di una leggenda metaforica raccontata alla bambina. Tremendo il doppiaggio italiano.
IL VOLO DELLA FENICE
Flight of the Phoenix • Usa 2005
Regia di John Moore con Dennis Quaid e Giovanni Ribisi

Rifacimento dell’omonima pellicola di Robert Aldrich del 1965 con James Stewart. Allora l’aereo precipitava nel Sahara, mentre nella nuova versione, molto meno avvincente, finisce nel deserto del Gobi in Mongolia, che diventa il feroce teatro dei tentativi dei sopravvissuti di riprendere quota. Guarda il trailer

Paolo Mereghetti: La pacchiana tempesta digitale all'inizio stabilisce un clima da videogame; e se non mancano momenti di spettacolarità superficiale, viene meno qualunque suspense, e le implausibilità sono troppe.
MONGOLIAN PING PONG
Lu cao di • Cina 2004
Regia di Ning Hao con Hurichabilike, Geliban e Badema

Una pallina da ping pong fa da detonatore a una storia sognante sospesa tra Mongolia e Cina. Tra bambini, saggi lama e cavalli al galoppo, il vero protagonista è il paesaggio mongolo. Richiama il film “The Gods must be crazy” dove una coca cola piovuta da un aereo genera caos fra i boscimani. Guarda il trailer

Tuonato: Mongolia, malgrado il progresso. Primo lungometraggio del cinese Hao Ning. Questa commedia realista - con dialoghi interamente in mongolo - dal titolo simpatico inizia con una famiglia e la sua foto di gruppo con sullo sfondo piazza Tienanmen. Peccato che lo sfondo sia di carta. Sì perché loro abitano in una tenda nelle sterminate pianure di steppa e il fotografo c'è venuto apposta per la foto, così come per vendere loro altre cianfrusaglie filo-occidentali. Prendiamo confidenza con le loro giornate, spesso l'una uguale all'altra, e con la sparuta comunità che vive in questa dimensione, allevatori di bestiame i cui focolari domestici distano chilometri dal "fratello" più vicino. Un giorno tre ragazzini vedono e prendono una pallina da ping-pong che galleggia su di un corso d'acqua: da qui la loro avventura, alla disperata ricerca di sapere cosa sia quell'oggetto misterioso che hanno trovato, troppo leggero per essere un uovo di uccello troppo artificiale e sferico per essere un sasso. Pallina che sarà quindi trattata alla stregua di un oggetto sacro. L'avventura si trasforma in seguito in missione, appurato che si tratta della leggendaria "palla nazionale". E a chi restituirla? I ragazzini non lo sanno, ma hanno sentito dire che Pechino è l'emblema nazionale perciò decidono di mettersi in marcia, che sarà mai, canzoni narrano che sia aldilà delle colline. Stremati dopo un intero giorno di cammino, si rendono tristemente conto di due realtà: che dopo le colline continua la steppa e che in quella direzione avrebbero raggiunto, al contrario, la Russia.
LA STORIA DEL CAMMELLO CHE PIANGE
Die Geschichte vom weinendem Kamel • Germania-Mongolia 2003
Regia di Byambasuren Davaa e Luigi Falorni con Janchiv Ayurzana

Nel deserto del Gobi una cammella ripudia il cucciolo nato albino. Una comunità di nomadi mongoli la convincerà con la musica a ricomporre la famiglia. Splendido spaccato di vita della steppa, grande successo internazionale. Guarda il trailer

Pietro Salvatori: I due registi riescono a imprimere una splendida naturalezza alle scene di vita quotidiana che chiedono appositamente di svolgere ad una famiglia nomade ad uso e consumo dello spettatore. Il risultato è una nascosta simbiosi tra l'universo tecnico e tecnologico di chi riprende, e la vita semplice e naturale di chi è ripreso. Il che rende tutta la narrazione fluida, gradevole, priva di quelle sacche di momenti morti che, spesso, sono il difetto/problema principale per un documentario. Il film scorre agevolmente non centrando il discorso sull'effettiva storia del piccolo cammello bianco, ma usandola come pretesto per descrivere una realtà lontana. Sorprende l'audacia di alcuni campi e inquadrature, che vengono enormemente aiutate da locations mozzafiato. Falorni e la Davaa non insistono (a ragione) sulla sofferenza dell'animale, orchestrando una prova corale che rende la vicenda del rifiuto della madre degna conclusione della descrizione di un mondo.
STATE OF DOG
Belgio-Mongolia 1998
Regia di Peter Brosens e Dorjkhndyn Turmunkh con Nyam Dagyrantz e Banzar Damchaa

Il cane Basaar viene ucciso da un cacciatore alla periferia di Ulaanbaatar. Il suo destino è di reincarnarsi in un uomo ma lui si rifiuta. Intanto cerca di proteggere una giovane donna da un pericolo catastrofico. Produzione belga-mongola con Brosens che girerà il film "Khadak" otto anni dopo. Guarda il film

Ruckle: Ottimo film, con scene che tolgono il fiato, alcune molto violente. La storia parla di un cane che muore e il suo spirito vaga per trovare il suo proprietario. La storia è solo l'occasione per offrire uno spaccato della realtà mongola, con tocchi a volte surreali. Il regista non ha scelto "il meglio" di Ulaanbaatar e della Mongolia, anzi tutto sembra deteriorato e inquinato. Ma il "gioco" funziona.
MOLOM
Molom, conte de Mongolie • Francia 1997
Regia di Marie Jaoul De Poncheville con Tsededorj e Yondejunai

Girato a Ulaanbaatar e nei territori siberiani, è la storia suggestiva di un uomo che diventa una sorta di sciamano, punto d’incontro fra uomini e dei. Cercherà di dare aiuto e protezione alle persone che incontra, ma non potrà fare nulla per il proprio destino. Guarda la prima parte

Mary Ann Brussat: Un capolavoro spirituale, uno di quei film che ti sa trascinare in luoghi remoti togliendoti il fiato.
URGA – TERRITORIO D’AMORE
Urga • Francia-Urss 1991
Regia di Nikita Mikhalkov con Bayartu e Badema

Leone d’oro al Festival di Venezia, scippato da Mikhalkov al cinese Zhang Yimou con “Lanterne rosse”. Un camionista russo finisce in panne nella steppa ed è costretto a confrontarsi e convivere con una famiglia di nomadi mongoli. Nasce un’improbabile ma sincera amicizia. Guarda il trailer

Paolo Mereghetti: Mieloso spirito di fratellanza, paesaggismo di maniera, misoginia spacciata verso Madre Natura: un megaspot buono per più committenti (dal movimento ecologista a quello per la vita), che ha preso al lazo - urga, in mongolo - il Leone d'oro al Festival di Venezia, ma ha compromesso gravemente la credibilità cinemtaografica di Michalkov.
IO E IL VENTO
Une histoire de vent • Francia 1988
Regia di Joris Ivens con Joris Ivens e Fu Dalin

È il film-testamento del novantenne regista olandese Ivens, sublime documentarista. Decide di piazzarsi nel mezzo del deserto mongolo per filmare… il vento. Un’opera di lirismo straordinario, che emana pace interiore ma anche gioia e libertà, che solo il territorio della Mongolia sa offrire. Guarda la prima parte del film

Paolo Mereghetti: Un vecchio (Ivens) vuole filmare una cosa impossibile: il vento. Nel deserto della Mongolia, in mezzo alla sua troupe, mentre aspetta che soffi un vento che solo la magia riuscirà a scatenare, l'immaginazione scompiglia i suoi pensieri. Un'avventura visiva di estrema libertà e ricchezza, condotta con Marceline Loridan, fedele compagna nel lavoro e nella vita, tra immagini cariche di intensissimo lirismo.
JOHANNA D’ARC OF MONGOLIA
Francia-Germania 1988
Regia di Ulrike Ottinger con Ines Sastre e Delphine Seyrig

Visionario manifesto del cinema femminista. Un gruppo di amazzoni mongole blocca il treno della Transmongolica e prende in ostaggio sette donne europee. Dopo l’iniziale disorientamento, le occidentali si adegueranno con gioia allo stile di vita delle steppe. Guarda una scena

Sheila Benson (LA Times): Panorami mozzafiati, costumi sontuosi e riti tradizionali vengono incredibilmente restituiti dalla fotografia di Ottinger, Sofisticato, misterioso e delirantemente meraviglioso: un viaggio indimenticabile.
DERSU UZALA, IL PICCOLO UOMO DELLE GRANDI PIANURE
Dersu Uzala • Russia-Giappone 1975
Regia di Akira Kurosawa con Maksim Monzuk e Jurij Solomin

Di mongolo c'è l'ambientazione in una non precisata taiga e c'è l'attore protagonista, il musicologo mongolo Munzuk prestato al cinema per questa meravigliosa pellicola di Kurosava, tratta dal romanzo del cartografo russo Arsenev che descrive la sua profonda amicizia con Dersu Uzala. "Nel 1902, un ufficiale russo che deve fare dei rilievi topografici nella taiga siberiana incontra un cacciatore solitario, Dersu Uzala. Si salvano reciprocamente la vita, e diventano amicissimi, malgrado le differenze. Il russo inviterà il cacciatore a venire da lui in città, ma il cacciatore ritorenrà nella taiga, dove verrà ucciso. Guarda il trailer

Paolo Mereghetti: Ispirato alle memorie del capitano Vladimir Arsen'ev, è uno dei più bei film sull'amicizia e sul rapporto dell'uomo con la natura, semplice ed emozionante, come solo i capolavori sanno essere. Commovente il modo con cui Kurosawa sa raccontare l'ingenuo animismo di Derzu (il suo parlare al fuoco e al vento, all'acqua e alla tigre) ma anche il suo senso di fratellanza universale (quando lascia qualche provvista nella capanna per il prossimo, eventuale occupante. Oscar come miglior film straniero.
MACISTE CONTRO I MONGOLI
MACISTE NELL’INFERNO DI GENGIS KHAN

Italia 1964
Regia di Domenico Paolella con Mark Forest, Josè Greci e Ken Clark

Due film girati in un colpo solo e distribuiti contemporaneamente. Solo il possente Maciste può contrastare le orde di Gengis Khan durante l’invasione della Polonia. La storia ci dice che non basterà. Guarda il trailer

Paolo Mereghetti: Sgangherato anche se con una punta di ironia. Di ordinaria amministrazione se si esclude una scena di tortura girata con gusto horror.
I MONGOLI
Italia-Francia 1960
Regia di André de Toth con Jack Palance e Anita Ekberg

La storia delle imprese di Ogodei, figlio di Gengis Khan, interpretato da Jack Palance. Ogodei avvia una guerra contro i principi polacchi guidati da Stefano di Cracovia, istigato dalla perfida principessa Huluna.

Paolo Mereghetti: Polpettone storico nella media dell'epoca, che si segnala solo per l'insolito cast. Diretto in gran parte da Leopoldo Savona e da Riccardo Freda, mentre André de Toth ha assicurato una generica supervisione. Tra gli sceneggiatori Tonino Guerra.
LE SCIMITARRE DEI MONGOLI
Sengoku gunto den • Giappone 1959
Regia di Toshio Sugie, con Toshiro Mifune e Misa O'Hara

C'è lo zampino del grande Akira Kurosawa, autore della sceneggiatura, in questo affresco bellico avvincente e ben girato. Protagonista Toshiro Mufune, principe mongolo che si trasforma in una sorta di Robin Hood delle steppe, compiendo scorribande per rubare ai ricchi e ridistribuire il bottino fra le popolazioni più umili. Uscito in Europa col titolo "Saga of the vagabonds".

Eugene Archer: Solido e piacevole film d'azione, strutturato con le classiche sfumature del cinema giapponese. Consueta performance di Toshiro Mifune nei panni dell'eroe burbero e impavido.
IL CONQUISTATORE
The Conqueror • Usa 1955
Regia di Dick Powell con John Wayne e Susan Hayward

Film brutto e maledetto sulla storia di Gengis Khan. Questo "mattone" fu girato nel deserto dello Utah, probabilmente contaminato da esperimenti nucleari: tutti i componenti del cast furono colpiti da tumore, John Wayne compreso, e morirono di lì a poco.

Paolo Mereghetti: Pessimo polpettone storico-avventuroso.
DESTINAZIONE MONGOLIA
Destination Gobi • Usa 1953
Regia di Robert Wise con Richard Widmark e Don Taylor

Esordio in technicolor per Wise che ambienta nel deserto del Gobi un’improbabile storia della Seconda Guerra Mondiale. Il protagonista è un meteorologo dell’esercito statunitense che si allea con una comunità di mongoli per fare fronte comune contro i giapponesi. Divertente.

Paolo Mereghetti: Wise si basa su fatti realmente accaduti, ma li priva della consueta enfasi epica. Più che un film di guerra, un western avventuroso, costruito dallo sceneggiatore Everett Freeman sullo schema consolidato di un piccolo gruppo coinvolto in una perigliosa odissea.
TEMPESTE SULL’ASIA
Potomok Cingiz-Chana • Urss 1928
Regia di V. I. Pudovkin con Valerij Inkizinov

Film epico ambientato nel deserto del Gobi nel 1920. Un cacciatore mongolo, reincarnazione di Gengis Khan, lotta eroicamente contro le ingiustizie degli invasori. Splendida fotografia bianco e nero, eccellenti attori e paesaggi maestosi con indimenticabile bufera di sabbia nel Gobi. Nel 1930 il National Board of Review of Motion Pictures lo ha eletto nel novero dei migliori film stranieri dell'anno. Guarda la fine del film

Paolo Mereghetti: Un film epico-lirico tanto discontinuo nella regia quanto appassionante nelle singole sequenze. Un canto di ribellione (non un "grido" alla Ejzenstein) sullo sfondo di paesaggi autentici come il deserto del Gobi, di cui il regista coglie - anche prima del finale esplicitamente simbolico - non l'aspetto naturalistico bensì quello poetico...