ULAANBAATAR WEATHER

MARIA E DAVIDE MATRICARDI

Siamo stati in Mongolia.
Davide la sognava da tanto e mi ha soggiogata questa sua buffa passione nata tra le note e le parole dei C.S.I. e coltivata negli anni, senza pretese ma con più determinazione di quanto mai si sarebbe detto. Ce lo siamo regalato per il matrimonio, che chissà quando mai ti capita di nuovo un’occasione c osì. Siamo partiti stanchissimi e storditi.
Il viaggio è stato proprio molto bello, inaspettato, liberante. Paesaggi incredibili estesi a perdita d’occhio, tempi lunghi e dilatati, quello che ci voleva per staccare da tutto, dall’orizzonte conosciuto, dalla frenesia degli ultimi giorni prima delle nozze, dall’ansia di dover fare fare fare fare in tempo. Abbiamo amato molto il non conosciuto perché ci ha consentito di non poterci fare alcuna aspettativa, e questo ci ha permesso di vivere tutto con uno stupore e una curiosità in cui non speravamo. Abbiamo amato molto i cambi programma e direzione, i contrattempi, gli ostacoli, che anche se lì per lì davano sui nervi e mettevano alla prova il nostro efficientista senso del tempo (è pur sempre denaro) in realtà hanno reso il viaggio forse un po’ meno finto e a misura di turista di quanto – un po’ per obbligo, un po’ perché tant’è anche ai globetrotter radicalchic (o a chi vorrebbe esserlo, come noi) una doccia in albergo, una sosta significativa, un souvenir tipico schifo non fanno – debba essere. Abbiamo amato la varietà inaspettata della steppa, il caldo secco del sole sulle dune e la luce al tramonto che ne inventava ed allungava le ombre e accentuava il contrasto del colore della sabbia con quello degli arbusti. Abbiamo amato l’acqua, in tutte le forme nella quale l’abbiamo incontrata: la cascata di Orkhon che scompare in un canyon, e disseta tutta la pianura e i cavalli; la buffa e puntuale pioggia ves pertina di Ulaanbaatar, davanti alla quale né le automobili né le giovani mongole si scomponevano minimamente e proseguivano leste (le ragazze anche eleganti – le auto un po’ meno) per la loro strada, mentre noi arrancavamo ridacchiando nelle pozze che subito si formavano per strada; i corsi d’acqua che formavano pantani verdissimi e morbidi, e che dall’alto di una collina correvano argentati su tutta la piana sottostante; l’acqua fresca e ben poco filtrata che proveniva da un pozzo costruito con copertoni di auto e che ci offrì tutta contenta Tonga, una bimba nomade lercia, allegra, sgamata e molesta con cui abbiamo passato un insolito pomeriggio di giochi mentre gli uomini della sua famiglia sorvegliavano le capre (seduti fuori dalla tenda) e le donne sbrigavano tutte le faccende domestiche (mai sedute un attimo dentro la tenda).
Abbiamo chiacchierato a lungo con la nostra giovane guida Uugane, e un po’ meno con Davka l’autista, rude, introverso e cocciuto. Abbiamo conosciuto missionari della Consolata ad Arvaikheer e anche a Ulaanbaatar, e condiviso con loro la Messa, la cena, le gioie ed i dolori della loro attività, del loro amore per questo Paese a volte un po’ difficile o faticoso, per chiunque lo abiti.
Abbiamo amato quasi sempre anche il vento. Lui di meno di notte, quando eravamo in tenda. A me piaceva anche in quel contesto. Spazzava via pensieri, nuvole e fatiche. Portava odori.
Abbiamo mangiato la carne più buona della terra, yogurt di capra essiccato al sole e una pasta fresca cotta al vapore dello stufato che dobbiamo assolutamente imparare a fare, adesso. Abbiamo visto ogni tipo di animali, dagli avvoltoi ai cammelli battriani, dai cavallini a quegli strani piccoli rettili che si confondevano con il colore della steppa, da toponi di ogni forma e dimensione ad aquile e falchi nella Valle delle Aquile. Abbiamo dormito nel letto del fiume Ongii dopo aver appreso con dolore che si era prosc iugato a causa dello sfruttamento intensivo di una miniera d’oro nelle vicinanze e dopo aver visitato le rovine dei templi alle otto di sera, abbiamo assistito a varie funzioni lamaiste e girato per Erdene Zuu, e cercato di capire qualcosa della storia del buddismo in questo paese, del suo presente e delle sue espressioni. Senza molto successo. Abbiamo deciso che se anche non avessimo capito tutto andava bene lo stesso. Abbiamo ammirato la piazza Sukhbaatar nonostante il traffico sconcertante, abbiamo conosciuto un giovane calligrafo che ha fissato nel modo più bello uno dei ricordi più belli che volessimo riportarci a casa, mentre raccontava della realtà artistica contemporanea del suo Paese, giovani bravi e intraprendenti, un fermento di idee e inchiostro. Ci siamo commossi e addolorati al Museo delle vittime dell’oppressione politica e ci siamo sempre più convinti che a volte è proprio difficile.
Ce la siamo guardata per bene correndo verso l’aeroporto, e ci siamo accorti che era grandissima.
Troppo bella la Mongolia.