ULAANBAATAR WEATHER

PAOLO COCCHI2

IN VOLO VERSO ULAANBAATAR

“Here I am again !” Beh, sì, per chi non lo sapesse, sono ancora sulle tracce di Gengis Khan dopo l’esperienza ciclistica dello scorso anno. Perché a piedi ? E’ stato il vedere un plastico dell’orografia mongola al Museo di Storia Naturale di Ulaanbaatar e il parlarne con Max a convincermi a ritornare. Macchè presunte storie amorose con cuoche o altre donne conosciute l’anno addietro, tutte illazioni di amici un po’ bevuti, la verità sta nel fascino che esercitano su di me i luoghi così selvaggi e inesplorati.
Ecco in due parole il motivo per cui mi trovo di nuovo sull’aereo dell’Aeroflot diretto verso est in compagnia del grande amico Max che forse più di me desidera raggiungere l’ombelico dell’Asia.
Saremo al centro esatto di questo enorme continente che ha visto le armate dei Khan spadroneggiare nel XIII secolo tra le sponde dell’Adriatico e quelle del remoto Mare Giallo.
Si sospetta che i Monti Altai, meta del nostro viaggio, custodiscano l’ancora inviolata sepoltura del più grande condottiero della storia, il temutissimo Gengis Khan.
Se c’imbattessimo nelle sue spoglie avremmo compiuto la scoperta archeologica più grande del millennio….ma ci accontenteremo di riportare a casa le nostre stanche membra senza disturbare il sonno dei grandi della storia !
Mi sento protetto dalla presenza di Massimo, la sua esperienza di supertramp e il suo curriculum di treks extraeuropei mi rassicurano. Uniremo le nostre conoscenze e la solita tenacia per affrontare le prime due settimane lungo gli alti sentieri delle Montagne d’Oro, questa è la traduzione dal turco
del toponimo “Altai”.
Ora è notte, stiamo volando da due ore verso est dopo aver lasciato Mosca, la luna piena si riflette sull’ala dell’aereo che domani violerà il sacro suolo mongolo.

BREVE SOGGIORNO NELLA CAPITALE

Due giorni di acclimatamento a Ulaanbaatar proprio occorrono.
Arriviamo alle sei del mattino come previsto. Un’occhiata ai cartelli d’accoglienza ma non scorgiamo nessun nome famigliare, magari solo il logo di Blue Wolf, l’agenzia che ho scelto tra le tante in internet. Aspettiamo, che altro si può fare ?
S’avvicinano due tassisti molto interessati al nostro caso, cerchiamo di spiegare loro che abbiamo già accordi con un’agenzia, ma intendersi non è così agevole ! Finalmente si fa vivo il nostro uomo,
è un ventenne assonnato che tiene in mano un pezzo di carta con i nostri nomi.
L’aeroporto è deserto ma ci sentiamo decisamente più sollevati, non siamo soli, ci conforta il pensiero di avere un rifugio sicuro dopo un viaggio di tante ore.
Ad attenderci c’è la madre del ragazzo, una persona davvero premurosa che ci accoglie con simpatia. L’appartamento è piccolo ma dignitoso, manca il superfluo.
Facciamo colazione nella piccola cucina dai cui vetri si vede una fila di casermoni stile sovietico che certo non allieta lo spirito. Tra un blocco di condomini e l’altro ci sono containers molto astutamente tramutati in garages. E’ uno dei tanti rioni popolari che permettono al quasi milione e mezzo di persone di sopravvivere in questa capitale considerata la più fredda del mondo, con inverni che registrano temperature dai -40°C ai -60°C.
Dormiamo un paio d’ore poi raggiungiamo il centro in taxi. Non noto nulla di diverso rispetto all’anno scorso, la piazza del parlamento è sempre dominata dall’impressionante statua in bronzo di Genghis Khaan, assiso in trono e protetto dai suoi bodyguards, due valorosi generali a cavallo che sembrano pronti a qualsiasi sacrificio per salvare la vita del loro signore.
Mangiamo e beviamo birra in un bel locale in legno gestito dalla Budweiser lì a due passi. E’ fin troppo western, molti frequentatori sono ben vestiti, probabilmente hanno incarichi nei vicini uffici
parlamentari. Dopo avere soddisfatto lo stomaco ci regaliamo una visita al Museo di Storia Mongola per capire un po’ di più di questo popolo di quanto già appreso leggendo libri o visitando siti sul web. Troviamo un po’ di tutto, dai petroglifi dell’età del bronzo ai bellissimi costumi tradizionali, dalle armi delle orde dei Khaan agli utensili della vita di ogni giorno.
Nelle ultime sale si respira il trionfalismo del regime sovietico che per settant’anni, fino al 1990,
ha imperato su queste terre. Infine le foto della gente in piazza ad accogliere la notizia dell’indipendenza l’indomani del crollo della cortina di ferro. Fu però illusoria questa libertà, come sempre l’economia dettò le sue spietate leggi e la povera gente ne pagò le conseguenze.
Rincasiamo a piedi percorrendo per alcuni chilometri Peace Avenue, la via dello shopping. Roba da ridere rispetto allo standard occidentale, sebbene i prezzi siano invitanti. Compriamo qualche birra, sono le ultime che possiamo permetterci prima dell’avventura che ci attende a breve nel remoto ovest. Giungiamo al nostro piccolo rifugio tra i tanti grigi condomini che lo circondano, la cena è già pronta, l’appetito non manca e certo chi ci conosce non ne dubiterà ! La gentile padrona di casa sta chiacchierando con un’amica, brindiamo al successo del nostro viaggio. Le due donne escono, sta facendo buio, ci lasciano le chiavi di casa per permetterci di fare due passi prima di coricarci. Mi chiedo se sarei così ospitale da fidarmi tanto di uno straniero, poi capisco che qui come altrove occorre fare di necessità virtù e, se si vuole guadagnare qualche soldo in più, si lasciano da parte le preoccupazioni. O più semplicemente la gente non ha cose così preziose da temere furti ! Passeggiamo per le vie di questo rione popolare, ci sono poche luci e molti bimbi che giocano rincorrendosi, salendo e scendendo dalle giostre che allietano i cortili, si respira un’aria di tranquillità. Le nuove generazioni crescono così, semplicemente.
Rincasiamo, è ora di dormire.
Abbiamo dormito bene, io su di un lettino molto duro ma confortevole, Max sul pavimento reso più morbido da varie coperte imbottite ripiegate più volte; la signora ci ha lasciato la sua camera e ha dormito in un’altra stanza per terra, forse su di un tappeto. Facciamo colazione scambiando poche parole in inglese, tuttavia la gentilezza dei modi trascende ogni barriera culturale e ci fa sentire a nostro agio. Stamane abbiamo in mente di visitare il monastero di Gandan o meglio ciò che rimane di quell’antico edificio dopo la distruzione voluta dal regime sovietico.
Il buddismo però non s’offende per l’ignoranza umana, cerca di contrastarla attraverso la presa di coscienza e ora, dopo anni di buio, il salmodiare di circa seicento monaci rieccheggia nelle sale dedicate alla lettura dei sutra, gli antichi insegnamenti del Buddha. Attorno al tempio vediamo piccole sale dove la gente comune si reca per imparare la corretta recitazione.
Dopo il culturale, il ricreativo! Raggiungiamo a piedi la birreria di ieri e ci concediamo un bel boccale di bionda fresca. Il tempo vola, è già pomeriggio; c’incamminiamo verso quello che sulla carta è segnato come un ampio parco pubblico ma non è altro che un enorme cantiere.
L’urbanizzazione della capitale continua nonostante i deleteri aspetti legati a disoccupazione e alcolismo. ll Tempio dei Lama sorge come un’isola in mezzo al cemento: oltre a visitarlo abbiamo l’occasione di assistere a uno spettacolo di canti tradizionali e di danza Tsam, di cui ho letto numerose volte.
I cinque danzatori indossano maschere terrifiche di antichissima foggia che servono per guidare le future reincarnazioni secondo le logiche buddiste. Questo misticismo sazia i nostri sensi ma non il nostro stomaco che ci suggerisce di rincasare per la cena, la padrona di casa ci attende con qualcosa di appetitoso, ne siamo sicuri, e così decidiamo di accorciare l’attesa prendendo un taxi.
Di lì a poco siamo seduti a tavola a sorseggiare una più che dignitosa birra mongola. . Dopo cena Erica ci mostra alcuni album di fotografie che ci aiutano a capire la storia della sua famiglia: oltre al ragazzo che ci ha prelevato all’aeroporto ella ha una figlia che studia in un college a Los Angeles e che rivedrà solo la prossima estate. Il marito deve essersene andato con qualcun’altra con cui ha fatto ben quattro figli. Dal vocabolo che Erica ci mostra sul dizionario d’inglese intuiamo che la nuova compagna del marito deve essere finita in carcere per un motivo che non riusciamo a capire.
Ci accommiatiamo, la stanchezza inizia a fare capolino, domani ci attende il lontano ovest.

VERSO OLGYI

Facciamo tutto con calma poiché dobbiamo essere all’aeroporto alle dieci. Ci accompagna Erica che si dimostra ancora una volta affidabile e premurosa, la rincontreremo di nuovo a Ulaanbaatar tra tre settimane.
Decolliamo puntuali, tra poco più di tre ore saremo a Olgyi, la capitale dell’aimag o provincia più occidentale della Mongolia. Dal finestrino scatto alcune foto: stiamo per atterrare, sotto di noi il paesaggio è davvero strano, punteggiato di laghi azzurri e rosa con immense distese di sabbia intervallate da rare rocce, sull’orizzonte compaiono montagne imponenti coperte di neve.
Il pensiero vola su quel paesaggio irreale accarezzando rilievi e vallate.
Prendere terra è a dir poco emozionante, vuoti d’aria così ne ho sentiti poche volte e oltretutto il pilota deve tenere il regime del turbo elica un po’ allegro per fronteggiare un forte vento contrario.
E’ andata, siamo con i piedi per terra. Ad aspettarci ci sono già l’autista del van e una ragazza mora gentile e carina che ci farà da interprete e guida tra le asperità dell’Altai mongolo.
Raggiungiamo il campo di Blue Wolf gestito da Canat, un uomo di 42 anni con il quale ho scambiato tante mail dall’Italia per capire se la sua organizzazione fosse seria; per il momento mi accontento di averne verificato l’esistenza, giudicheremo poi il servizio offertoci. Gli accordi sono chiari ma ci sono difficoltà nello scambiare i dollari comprati in Italia:
alcune banconote recano impressi strani piccoli disegni di animali, così spendiamo una settantina di dollari in più per compensare il cambio più basso avuto dal nostro organizzatore sul mercato nero.
La moglie cura gli interessi di casa, queste kazake sembrano davvero toste, ho letto che sono le più emancipate tra le donne islamiche e godono degli stessi privilegi degli uomini non sottraendosi però alle incombenze del quotidiano, prima fra tutte lo sbrigare le faccende domestiche. L’immagine che colgo entrando nella guest house è quella di tre o quattro donne che stirano e ripiegano con cura meticolosa lenzuola e altra biancheria.
Ceniamo in modo dignitoso con i soliti monopiatti mongoli, riso o pasta, verdure cotte e crude e l’onnipresente carne. Il bere rasenta davvero il minimo sindacale, acqua o tè, siamo tra gente musulmana e altro non ci è concesso, sperimentiamo il Ramadan alcolico !
Compare un musicista kazako con una sorta di mandolino per allietarci con virtuosismi e una voce dall’estensione davvero notevole. Ci viene dedicato “I’m sailing” di Rod Stewart e, anche se il testo evoca il veleggiare, accettiamo di buon grado questa attenzione rivolta a noi occidentali.
Tra gli altri stranieri presenti conosciamo un austriaco che è qui da mesi per conto della televisione del suo paese, sta girando documentari in queste remote regioni; è attrezzatissimo, guida un camion stile Overland dotato di ogni comodità. Ci racconta degli scenari incredibili che incontreremo nel Parco di Tavan Bogd, grande più della nostra Liguria e meta del nostro trekking.
Guardo le foto alle pareti della guest house impressionato dalla loro bellezza: sono opera di professionisti che lavorano per National Geographic. Chi può competere con le loro attrezzature e soprattutto con i loro tempi ? Penso che avrei potuto fare questo mestiere se avessi avuto più determinazione, in fondo non è dissimile da quello del pastore errante per le steppe dell’Asia Centrale, solo molto più tecnologico e dotato di comfort. Le emozioni sono le stesse, l’uomo occidentale le traduce in immagini e ne ricava un guadagno, per l’altro rappresentano l’essenza stessa della vita.
Non ci rimane che raggiungere la nostra gher, domani inizia il nostro piccolo sogno.
Dopo una doccia e un’abbondante colazione, diamo una mano a caricare i bagagli sul van che ci accompagnerà fino al lago Dayan da cui cominceremo a camminare.
Non credevo occorressero tante vettovaglie, ma occorre considerare che, oltre a me e a Max, ci saranno Bota, la nostra interprete e guida, Natasha che ci farà da cuoca e un paio di uomini che incontreremo stasera. La giornata scorre piacevolmente, il paesaggio è quello solito, almeno per me che ricordo con precisione il viaggio in bici dell’anno scorso da Ulaanbaatar verso ovest e poi a nord al confine con la Siberia. A sera raggiungiamo il lago e salutiamo l’autista che ci ha accompagnato per tanti chilometri, ora dobbiamo fare affidamento solo sulle nostre gambe !
Incredibile, tutto il bagaglio sarà portato da un cammello guidato da due giovani indigeni di 22 e 28 anni e dai loro cavalli. C’è pure il padre di uno dei ragazzi, Manà, un signore segaligno di sessant’anni dal viso segnato dalla fatica. Non sarà con noi, accompagnerà un’altra comitiva.
La sera è magica, il sole sta tramontando specchiandosi sul lago, uomini e cose sono contornati di una calda luce, è il momento migliore per cogliere immagini.
Sto passeggiando sulle colline qui attorno, il bagliore del lago negli occhi quando una voce rompe l’incantesimo: “La cena è pronta !”. Quando il sole scende un gelido abbraccio avvolge questo altopiano a duemila metri, è meglio non farsi sorprendere, non c’è pietà per alcuno.
La cuoca, Natasha, ha 22 anni e una tempra incredibile da vera donna kazaka. Insegna informatica da settembre a giugno e poi guadagna qualche soldo in più d’estate dilettandosi ai fornelli per dare conforto ai pochi turisti che capitano da queste parti. E’ davvero brava, ci prepara una zuppa con verdure e carne di montone, facciamo il bis. L’ultimo bicchiere di Pinot Grigio l’ho offerto a Max all’aeroporto di Malpensa……pazienza, ci rassegniamo, visto che pochi sono riusciti a trasformare l’acqua in vino !
Bota, la nostra interprete, è una ragazza di 27 anni che ha una figlia di appena un anno. Purtroppo ha perso il marito alla fine dello scorso anno, un infarto se l’è portato via. Le si rompe la voce alla nostra domanda riguardo al compagno, ha pianto per mesi questa inattesa morte, per fortuna ad aiutarla ha ancora i genitori cui ha affidato il suo piccolo tesoro prima della partenza del trekking.
Le parliamo delle nostre vite anch’esse purtroppo segnate dal dolore e dalla consapevolezza di dover andare avanti per cercare di trasmettere a chi ci sta vicino un poco della grande eredità d’amore che ci è stata affidata. Almeno questa giovane donna custodisce il segreto e la gioia di una vita che s’è appena offerta al mondo e che le sarà di grande conforto per i giorni a venire.
Bota ha il viso dolce e non nasconde affatto la propria femminilità sebbene la religione ne condizioni in parte i costumi. Il tono piacevole della sua voce e il sorriso sono di corredo a uno sguardo vivace e a un portamento armonioso. Insegna inglese ai ragazzi dalla prima età scolare sino ai diciott’anni e ha accettato di buon grado il compito di accompagnarci certo per guadagno ma forse anche per sentirsi ancora viva dopo tanti giorni duri e tante riflessioni.
Il camminare nell’aria fresca delle montagne dell’Altai l’aiuterà a scacciare la malinconia, ce lo confida, e le permetterà di confrontarsi con gente vera.
Le mancherà la sua piccola creatura ma dieci giorni passano velocemente e tra un attimo potrà riabbracciarla.
Ora tutti a nanna, io e Max nella nostra tenda, Bota e Natasha nella loro e i due ragazzi cowboys
nel loro bivacco approntato con consumata esperienza.

LUNGHI GIORNI DI TREKKING

Come descrivere il prologo di questo trekking ? Ora, a distanza di una settimana, ha assunto connotati meno duri, non posso comunque dimenticare il forte disagio che lo ha distinto.
Il primo giorno mi mette subito alla prova, appena sveglio rimetto la cena della sera precedente e non faccio colazione. In questo stato percorro una ventina di chilometri, per fortuna in pianura, cercando di resistere allo stato di spossatezza. A complicare tutto c’è un’invasione
di zanzare che farebbe impallidire i nostri timidi insetti padani e non ci permette di godere dei pochi momenti di riposo concessi dalla nostra road map. Unico conforto la gradevole temperatura e un paesaggio rilassante di colline e praterie.
Non ceno, proprio non mi va nulla, cerco solo di riposare dopo una giornata interminabile.
L’indomani mi sento meglio ma non ho ancora vogli d’ingoiare cibo, mi nutro di tè zuccherato.
Ci aspettano trenta chilometri di cammino. Sono assorto nei miei pensieri, la presenza di Max dinnanzi mi dà sicurezza, poi c’è Bota che rende tutto più sopportabile con la sua dolcezza.
Ci accampiamo mezz’ora dopo le sei, troppo tardi, e ancor peggio sotto una pioggerella insistente.
Raccomandiamo alle nostre guide di fermarsi per tempo i prossimi giorni per poterci rilassare e sbrigare piccole incombenze come lavare gli indumenti e provvedere all’igiene personale.
Incuriositi ci recano visita due pastori kazaki uno dei quali stringe teneramente al petto il nipotino.
Chiediamo loro com’è l’inverno da queste parti e se hanno visto gli animali selvaggi che tanto ci preoccupavano prima della partenza. L’inverno scorso è stato terribile in tutta la Mongolia, sono morti almeno quattro milioni di capi di bestiame su di un patrimonio dieci volte più numeroso.
I -40°C sono normali in queste steppe, ma sono i venti gelidi che fanno scendere il termometro a
-60°C e gelano la rada prateria a decretare la fine di questi poveri animali. A complicare la situazione ci pensano i lupi. Credevamo di aver letto un dato esagerato riguardo al loro peso ma i nostri fieri e duri interlocutori ci assicurano che un lupo maschio adulto può pesare dagli ottanta ai cento chili e che è capace di un coraggio e di una resistenza estremi. Oltretutto queste belve sono intelligentissime, tant’è che le loro tattiche di caccia sono state imitate dalle orde dei temutissimi khaan con grande successo in innumerevoli battaglie. Per non parlare della fierezza di questi animali che si amputano una zampa o si lasciano morire piuttosto che farsi addomesticare.
Mai addentrarsi in un bosco di sera da soli, ci dicono, ma chi ci ha mai pensato ?
In quanto all’orso ne esistono pochi esemplari, è una specie protetta e ben si guarda dal mostrarsi allo sprovveduto turista come del resto il bellissimo e ormai rarissimo leopardo delle nevi.
Dopo questo approfondimento sulla fauna locale ceniamo e ci corichiamo guardinghi sperando che i nostri sogni non siano popolati da bocche feroci disposte a sbranarci. Per precauzione tengo a portata di mano il coltello che diligentemente Max ha fatto affilare prima della partenza, la vicinanza di un’arma mi aiuta a trovare il sonno.
L’indomani mi sento finalmente più in forma, ho quasi recuperato la forma fisica e anche il tempo sembra risentire del mio buon umore e vi dirò che mi è tornata la voglia di fotografare che, oltre all’appetito, mai mi è venuta meno in questi anni di viaggi.
Attraversiamo un bel bosco di larici e abeti, qua e là la sottostante pianura è punteggiata dal candore delle gher e dagli animali al pascolo. Ci fermiamo presso una delle tante tende incuriositi dall’operazione che il pastore sta compiendo e alla quale partecipa tutta la famiglia: una capra è stata sgozzata e appesa per lasciare drenare il sangue, così pretende il rito islamico. Tutto avviene in maniera naturale mentre il bimbo lì accanto gioca con le povere zampe dell’animale. E’ un rito antico scevro da crudeli accanimenti, siamo noi occidentali ad aver perso il contatto con la natura e con la saggezza imposta da un’economia di sussistenza.
Di fronte alla gher c’è un essicatoio in legno. Siamo invitati a entrare, ci vengono offerte tante cose, accettiamo un pezzo di formaggio per non essere scortesi ma presto ce ne pentiamo perchè
ci sembra di avere in bocca un sasso tant’è stagionato. Siamo ormai lontani da questa ospitale famiglia ma i nostri tenaci bocconi non li abbiamo ancora deglutiti, forse è una strategia mongola per non badare alla fame !
Seguiamo tutto il giorno la costa del Lago Hoton a volte fiancheggiata da estese macchie di fiori acquatici rosa che le conferiscono un aspetto romantico.
A sera giungiamo su di un bel prato non distante dal lago e da un torrente dalle acque cristalline.
Qui decidiamo di campeggiare. Sono le quattro del pomeriggio, abbiamo ancora luce ed energie sufficienti per sbrigare qualche indispensabile faccenda. Gli alberi attorno accolgono la nostra biancheria messa ad asciugare al sole della sera mentre scorgo Max che stoicamente s’immerge nelle acque gelide del torrente; io scelgo un approccio meno stoico accontentandomi di lavarmi un pezzo per volta. Ho persino il tempo di scrivere qualche pagina del diario e di piazzare la macchina fotografica sul cavalletto per tentare qualche immagine panoramica: mi piace dedicarmi a queste cose e non soltanto dover camminare per ore. Apprezziamo con maggior gusto anche la cena che Natasha sempre prepara con passione e fantasia, considerando le poche cose di cui può disporre.
Ora le ombre s’allungano, qui la sera arriva d’improvviso e con essa il freddo.
Dopo cena l’unico comune pensiero è quello d’infilarsi nel sacco a pelo e godere del caldo abbraccio del piumino d’oca.
Raggiungiamo l’estremità settentrionale del Lago Hoton, il paesaggio è di maestosa bellezza.
Ci sono alte montagne innevate sullo sfondo, la nostra carovana segue la sponda del lago di un colore azzurro rosa per l’incredibile fioritura delle piante acquatiche, tutt’attorno ci sono immensi verdi prati e radi abeti. Le uniche vestigia umane sono quelle delle poche famiglie di nomadi che nel periodo estivo trasferiscono le loro gher e mandrie su questi alti pascoli per sfruttare la rigogliosa crescita dell’erba e approvvigionarsene per l’imminente inverno.
Ci fermiamo per il pranzo in prossimità di un laghetto che sembra essere stato creato apposta per ospitare una coppia di candidi cigni che ne fendono elegantemente le acque inseguendosi per ogni anfratto. Tutto è pace quassù, la fretta non esiste, la vita è dura ma vera, ogni gesto è misurato e saggio, non c’è tempo di rattristarsi, ce n’è per capire.
Arriviamo nel primo pomeriggio presso una caserma che non riesce a incuterci timore costruita com’è di poveri materiali, solo pochi militari presidiano il confine con la Cina, si respira un’aria di tranquillità. Appoggiamo le nostre stanche schiene contro le cataste di legna pronte per il prossimo inverno, dobbiamo attendere il benestare dei militari per varcare il confine del Parco Nazionale di Tavan Bogd. La nostra guida Bota ha commesso un’imperdonabile leggerezza dimenticando i nostri permessi, così deve far appello a tutta la sua dolcezza e sincerità per cercare di convincere le guardie a lasciarci passare. Vengono registrati i nostri documenti per una successiva verifica e dopo un’oretta di attesa vediamo alzarsi di fronte a noi la sbarra che ci consente l’ingresso in paradiso.
Ci accampiamo presso un fiume, domani ci attende una tappa lunga e dobbiamo riposare.
Perché vi parlo di un Eden ? Beh, devo ammettere che queste montagne hanno il fascino che solo i i luoghi remoti e incontaminati sanno esercitare, parlano il linguaggio dei sogni.
Solo in alta montagna nella nostra troppo antropizzata terra si possono provare simili emozioni, in altri luoghi non ci è permesso raggiungere un tale rapimento estatico.
L’indomani seguiamo il fiume dalle acque bianche che traccia questa ampia valle rimanendo sulla sua sponda sinistra tra belle foreste di abeti. A volte il sentiero scende a lambire l’acqua, altre volte s’inerpica e fa lavorare i muscoli delle nostre gambe. Giungiamo al Lago Verde reso tale dalle conifere che si specchiano sulle sue acque, è una perla incastonata tra alte montagne. La traccia che seguiamo d’improvviso s’impenna costringendo la comitiva che ci precede a scaricare dal pesante fardello il povero cammello impaurito e incapace di procedere. Ci dicono che è un animale ancora giovane e inesperto, mentre il nostro è un giovanotto talentuoso di dieci anni che, se assistito dalla salute, ne potrà vivere ancora venti rafforzando il suo già incredibile fisico.
Sul dorso del nostro possente compagno c’è praticamente tutto, un peso di oltre trecento chili assicurato magistralmente alla sua rocciosa schiena tramite un basto legato alle gobbe. Non avrei mai supposto tanta forza e destrezza in quello che dai più è considerato solo la nave del deserto.
Al contrario i cavalli sono scarichi, reggono solo il peso dei cavalieri, due portano i nostri mandriani e il terzo la preziosa cuoca Natasha. Max, Bota ed io avanziamo a piedi con gli zainetti in cui abbiamo messo lo stretto necessario per affrontare il freddo e la pioggia. Finalmente raggiungiamo un posto adatto per campeggiare dopo aver attraversato con difficoltà infiniti pratoni alluvionali ancora inzuppati dalle tante precipitazioni cadute nei mesi scorsi. Ci laviamo in uno dei torrentelli che contribuiscono a ingrossare il fiume, poi finalmente ci rilassiamo.
S’avvicina al nostro accampamento un pastore che ha il suo rifugio proprio qui a due passi in un capanno in legno stile Far_West incastonato tra due alberi. Il nostro amico ha un’espressione a dir poco serena, ogni parola che dice è radiosa come il suo sorriso. Ci indica la sua mandria che sta pascolando laggiù presso il fiume e il suo ingegnoso ricovero, il nostro è un dialogo di gesti e sguardi sufficiente a esprimere i pensieri. Dobbiamo congedarci, ci attendono a cena, l’appetito esige di essere soddisfatto. Dopo cena leggerò qualche pagina del libro portato da casa che parla di un viaggio fatto d’inverno in questa sperduta regione della Mongolia.
E’ tardi, si fa per dire, in effetti non sono nemmeno le dieci di sera ma la stanchezza del lungo giorno di cammino suggerisce al fisico di riposare. Non credevo che un trekking fosse così impegnativo, ho sempre pensato che la bicicletta fosse più stancante, ora ho molti dubbi a riguardo.
Non importa, the show must go on, occorre crederci !
Stamane ci svegliamo con la brina sul telo esterno della tenda, fa un freddo cane, i giorni scorsi ha nevicato appena sopra alle nostre teste, continuiamo a seguire il fiume. Bota, la nostra giovane e inesperta guida ha fatto solo una volta e in senso opposto questo sentiero tre anni fa e ci appare a dir poco insicura tanto da non accorgersi della traccia che invita ad abbandonare il greto del fiume per cominciare a guadagnare il pendio. L’errore è commesso e solo dopo parecchio tempo sentiamo voci lontane che c’invitano a correggere i nostri passi: sono quelle della nostra carovana, lassù, appena distinguibile sul crinale. Bisogna farsi forza e cominciare a salire, ci attendono trecento metri di dislivello su di un arduo pendio disseminato di buche e arbusti, che meraviglia !
Devo far appello a tutta la mia determinazione, se la guida non fosse quella creatura delicata che conosco giuro che l’avrei quantomeno esautorata !
Ricomposto il gruppo torna la serenità. Mi fermo qualche centinaio di metri oltre la nostra carovana, ho bisogno d’inebriarmi della musica del silenzio. Chiudo gli occhi e sento il fragore del fiume, il vento gioca con l’erba accarezzandola, i pensieri nella mia mente scorrono rapidi come nuvole bianche su di un cielo azzurro. La testa è vuota, forse è così che si sfiora la consapevolezza di esistere, ma è un brivido che dura un istante e poi vola via, sfugge come la vita.
Pranziamo tutti assieme e poi ripartiamo, la meta non è distante. Arriviamo nel primo pomeriggio in un’ampia vallata percorsa da un bel torrente, luogo ideale per rimettersi in forma dopo le tante energie spese. Non siamo soli, c’è un’altra carovana guidata da Mana, il padre del giovane cavaliere che ci accompagna. Del gruppo fanno parte un ragazzo madrileno e un’inglese. Scambiamo quattro chiacchiere, sono simpatici, seguono il nostro stesso itinerario. Ci salutiamo dicendoci “see you around”, ci vediamo qui attorno…..e dove vuoi andare ?
L’altopiano che abbiamo scelto per la notte è a 2500 metri, ideale per affrontare il passo a oltre 3000 metri che affronteremo domani e che ci permetterà di raggiungere l’agognata meta.
Scrivo dopo giorni il diario, chiacchiero con Bota, scatto foto, il tempo vola e l’ora di cena giunge in un attimo. La notte trascorre serenamente mostrando al nostro stupore uno spettacolo di stelle:
il Piccolo e il Grande Carro con la Stella Polare, la scia argentea della Via Lattea sono così evidenti che sembra di poterli toccare.
La mattina successiva è luminosa, non una nube in cielo, l’ideale per scollinare. Il passo non è impossibile per le nostre gambe, quel che sorprende è che provi a superarlo un cammello così affardellato. Solo le foto potranno convincervi della prestazione incredibile di quest’animale !
L’altro versante ci regala un paesaggio affascinante fatto di ghiacciai e sfasciumi di rocce, la discesa è piuttosto impegnativa e ci costringe a far attenzione a non scivolare sul terreno franoso.
Ora su questo bel prato sembra impossibile aver superato le cime dinnanzi a noi e possiamo finalmente concederci un’ora di tempo per mangiare e rilassarci prima di affrontare di nuovo il cammino verso il campo serale. Incontriamo gher e mandrie, falchi volteggiano sulle nostre teste, alcuni bimbi ci corrono incontro mostrandoci come guadare il fiume. Il più piccolo è in difficoltà e Max se lo prende in braccio, lui ride divertito di questo inatteso passaggio.
E’ gente di etnia tuvana, una minoranza russa che vive quassù, progenie temprata e tenace, alcuni hanno chiome incredibilmente bionde.
Lo sguardo abbraccia il sottostante fiume che traccia questa amplissima vallata destinata ad accogliere le nostre tende. E’ bello arrivare di buon ora, piazzare armi e bagagli e avere quel minimo di raccoglimento che permette di confidare al diario i propri pensieri.
Le giornate qui volano letteralmente, mi sembra che il tempo abbia altri parametri su questo altopiano. E’ vero che percorriamo una media di cinque ore camminando per circa venti chilometri ogni giorno, tuttavia ho il sospetto che qualcuno acceleri le lancette del mio orologio.
Le foto, un po’ di diario, due chiacchiere con Max e Bota, visto che con gli altri ci potremmo solo intendere in kazako o in mongolo, e la sera ci piomba addosso inducendoci a cercare i caldi letti di piuma. Mica litighi per il telecomando o guardi se la lavatrice ha finito il suo ciclo per poi stendere,
tutto qui ha ritmi diversi, più semplici e sicuramente molto più naturali. E’ nel valorizzare ogni gesto che si scopre il significato di una vita libera, non c’è niente di superfluo, tutto assume un significato preciso. Anche i pensieri hanno una diversa levità, scorrono liberi lasciando la mente più attenta a cogliere ciò che si nasconde dietro le apparenze, non c’è spazio per le illusioni.
Non mi rimane che abbandonarmi al mondo di Morfeo, spero che i sogni m’intrattengano piacevolmente questa notte.
Un’altra spettacolare giornata ci attende, all’alba la nostra giovane e instancabile Natasha è già all’opera. Saggiamente, come ogni mattina, ha già preparato la colazione e il pranzo per tutti
proteggendolo dentro contenitori di plastica. Le abluzioni sono sommariamente compiute nella corrente del vicino fiume, l’acqua gelida sul viso ci ricorda che sta iniziando un nuovo giorno pieno di sole e di natura da godere. Stamane, dopo una mezz’ora di cammino, siamo già fermi perché abbiamo davanti agli occhi niente meno che dei petroglifi, ovvero incisioni rupestri risalenti a cinquemila anni fa, all’Età del Bronzo. Sono raffigurazioni di cavalli, cervi, argali, stambecchi e tantissimi altri animali eseguite con buona tecnica. E’ commovente vedere scene di caccia, uomini di tremila anni prima di Cristo che tendono i loro archi nella speranza di procacciarsi il cibo.
E’ un museo all’aria aperta. Alzo lo sguardo sull’ampia valle che ospita questi preziosi reperti e cerco d’immaginare come doveva essere allora la vita, apparentemente semplice ma di fatto estremamente dura. Scatto molte foto, spero restituiscano il valore di questi antichi disegni.
Superato il colle dinnanzi a noi ci appare in tutto il suo splendore il tesoro che abbiamo atteso in tutti questi giorni: le vette del Tavan Bogd, i cosiddetti Cinque Santi, splendono al sole.
Questi giganti di oltre 4000 metri segnano il confine tra Mongolia, Russia e Cina. La traduzione dei loro nomi è suggestiva, Cima Fredda, Sole, Culla, Aquila e Amicizia.
Il tempo sembra reggere, il sole brilla alto nel cielo, le cime e i ghiacciai esercitano un fascino irresistibile nelle nostre menti, forse domani o il giorno successivo ne violeremo una per scorgere da lassù la vastità di questa terra. Pranziamo a sacco come sempre e poi cerchiamo di rubare con i nostri binocoli i segreti delle nevi e dei fiumi che da esse hanno origine. Presto lungo il cammino dobbiamo affrontare una difficoltà imprevista, un ostacolo apparentemente insuperabile, un corso d’acqua bianco e impetuoso che ci separa dalla terra su cui pianteremo le tende.
Il cammello osa per primo guidato dal suo cavaliere, è un carrarmato che fende le acque con incredibile sicurezza. Ora è la volta di Max, poi toccherà a me e a Bota, la nostra giovane mamma.
Il cavaliere che ci affianca ci suggerisce di stringere forte i talloni contro il ventre del nostro animale, d’incitarlo con la voce e soprattutto di non guardare l’acqua perché potrebbe indurre capogiri e disorientamento. Così il nostro sguardo mira l’altra sponda anche se la corrente impetuosa e lattiginosa che lambisce le pancia del cavallo non è facile da ignorare ! Uno alla volta siamo scortati dal nostro fiero Caronte, al secolo Uanbic.
Sono solo le due del pomeriggio e già stiamo montando la tenda, abbiamo finalmente un lungo pomeriggio di relax, di chiacchiere, di confidenze al diario e di fotografie.
La notte infine ci regala un sonno profondo e sogni rilassanti.
La sveglia è suggerita come sempre dalla calda luce che già verso le sei e mezzo invade il nostro piccolo rifugio. Ora ci attendono le solite incombenze mattutine: si ripongono le cose negli zaini, s’arrotolano i sacchi a pelo e i materassini e infine la tenda viene ripiegata e infilata nell’apposita sacca.
Toilette mongola e abluzioni acrobatiche completano il quadro, i servizi qui non sono mai occupati!
La colazione ci attende sotto il tendone cucina dove fervono da tempo i lavori condotti con la solita
solerzia dalla nostra Natasha, i nostri cavalieri stanno sistemando le selle sul dorso dei cavalli e il basto tra le gobbe del nostro valoroso cammello. Dovreste vedere la montagna di roba che viene legata a questo eroico animale, compresa la stufa completa di camino che gli conferisce un aspetto poco dignitoso.
La fanteria è già in marcia, in testa è sempre Max, seguono Bota ed io, ci copre le spalle la cavalleria con Natasha, Aibic e Uanbic. Devo subire come ogni mattina il supplizio di Prometeo,
non sono incatenato alla roccia e non è un’aquila a riaprirmi la ferita, sono gli scarponi che m’infliggono un dolore alle caviglie a volte difficile da sopportare. L’errore è tutto mio e la pena pure. Ho voluto calzare solette interne che solitamente utilizzo nelle scarpe per correre ma la scelta si è rivelata sbagliata e, una volta tolte, il danno era già fatto !
Pazienza, imparerò da questo errore, ne sono certo ! Max procede spedito davanti a me, è granitico, non batte ciglio, sembra che abbia ingranaggi anziché ossa e muscoli. Bota, la nostra sedicente guida, continua ad avere idee molto confuse riguardo ai sentieri da scegliere, più che lei a guidare noi sembra il contrario. E’ però una donna tosta, una vera mongolo-kazaka, non ammette mai di essere stanca, solo il respiro affannato e lo sguardo tradiscono il suo stato. Non si può non volerle bene.
Oggi raggiungeremo la meta finale del nostro trekking, le vette dei Cinque Santi e il ghiacciaio Potaniin che ricopre per quasi venti chilometri questa valle. Alla testa della morena nasce un fiume dalle acque bianche rese tali dal dilavamento delle rocce circostanti che contengono un particolare minerale. Noi fanti seguiamo il percorso vicino al fiume mentre i cavalieri seguono un’altra traccia.
Una montagna ci separa, speriamo non per sempre ! D’un tratto Uanbic ci scorge dall’alto e affronta il pendio con grande destrezza grazie al suo agile cavallo, nelle bisacce di cuoio a fianco della sella ci sono le scatole con il nostro pranzo. Ci riposiamo una mezz’oretta al sole godendo del bellissimo panorama fatto di ampi pascoli, fiumi e cime innevate, poi proseguiamo per il campo base ma siamo colti da una bufera di vento e ghiaccio che ci costringe a indossare tutti gli abiti impermeabili che custodiamo negli zaini oltre a guanti invernali e passamontagna. Siamo appena oltre i tremila metri e la temperatura può abbassarsi senza preavviso. Scorgo uno scoiattolino che si è rifugiato in un piccolo avvallamento del terreno e mi guarda tremante…..che tenerezza ! La natura è spietata, chissà cosa ne sarà di lui. Arriviamo al campo base, ci sono vari gruppi di tende, le due arancioni appartengono a un gruppo d’italiani che vengono da Genova, tre donne e un uomo.
Sono appena le tre del pomeriggio, c’infiliamo nei sacchi di piumino e cerchiamo di dormire un po’ sperando che la perturbazione si plachi, così in un attimo si fanno le sette di sera e Natasha chiama per la cena. Nevica, la tenda cucina ospita i nostri cavalieri e alcuni loro amici kazaki che stanno facendo da guida ai vari gruppi accampati di fianco al ghiacciaio. E’ bello stare tutti assieme sotto questo telo a gustare una zuppa calda di carne e verdura. Dopo cena ci recano visita le due donne genovesi che abbiamo scorto poc’anzi. L’accento tradisce le loro origini, scambiamo impressioni di viaggio sorseggiando tè e sgranocchiando arachidi salate. Le nostre amiche vantano un palmares davvero notevole fatto di viaggi e sfide, ci suggeriscono di percorrere un ghiacciaio di ottanta chilometri in Kyrgyzstan che offre scenari spettacolari. Max parla dei suoi innumerevoli treks in Nepal, Tajikistan, Ladakh e altre regioni dell’India oltre a quelli europei.
Io ho alle spalle viaggi compiuti in bici, dal Madagascar all’Alaska, dalle Rocky Mountains in British Columbia ai 5600 metri del passo carrozzabile più alto del mondo in Ladakh.
Gli argomenti di conversazione non mancano, diamo un’occhiata all’orologio, è incredibilmente tardi, sono le 22, roba da matti ! Una forte stretta di mano e poi tutti in tenda per cercare un sonno che a questa quota però tarda ad arrivare. I sacchi di piumino faticano a trattenere il calore dei nostri corpi mentre “fuori piove un mondo freddo” di ghiaccio e neve come recita Paolo Conte.
Con giacca di piumino, calzamaglia, passamontagna e due paia di calze non riesco ancora a scaldarmi, stringo persino i lacci del sacco attorno al collo per intrappolare il calore.
Massimo mi fa compagnia parlandomi dei treks compiuti in Irlanda, Galles e Scozia come solo lui sa fare, con entusiasmo e dovizia di particolari. Così tra Connemara, Isole Aran, Snowdonia e Munro riusciamo a prendere sonno senza forse augurarci la buonanotte.
L’indomani si presenta nuvoloso e i nostri progetti di scalare il Malchin, il 4000 metri non lontano dal campo base, stanno svanendo. Facciamo una colazione abbondante nella tenda mensa chiacchierando con le nostre guide dell’inutilità di salire con un tempo così incerto. Approfitto di questa sosta forzata per aggiornare il diario, sorseggiando tè e caffè in polvere. Max fuma la pipa e guarda gli scoiattolini contendersi i biscotti che offriamo loro.
Mi piace questa situazione di stallo, lascia il tempo alle nostre anime di raggiungerci, chissà quanto indietro erano rimaste. Fa freddo, abbiamo voglia di muoverci e così decidiamo di fare due passi per scaldare le membra intorpidite prima di pranzo. Risaliamo la morena fino a quota 3150, un’oretta tra andata e ritorno. Nonostante il clima uggioso e le incombenti nuvole lo spettacolo è garantito.
Il ghiacciaio è macchiato qua e là dalla luce che riesce a forare la coltre grigia del cielo apparendo ancora più drammatico, sembra una tela di Turner. Che immensità, diverse lingue di ghiaccio convergono in una sola alimentando questo mare dai toni foschi che incute timore e rispetto.
Nessuno di noi ha velleità di conquista, ci accontentiamo di godere dell’incanto di tale natura incontaminata. Apprezzo questa giornata apparentemente noiosa spesa al campo base a circa tremila metri, leggo, scrivo, mangio e chiacchiero con genti diverse, australiani che ritornano a casa con equipaggiamenti incredibili dopo un tentativo non riuscito di ascensione e un paio di altoatesini che ce la mettono tutta per esprimersi in un italiano comprensibile. A proposito di questi ultimi, stasera li abbiamo invitati a cena, sono talmente parsimoniosi da avere qualche scatoletta e poco altro.
Abbiamo chiesto loro una bottiglia di Gewurz Traminer, hanno risposto con una risata che li ha tolti dall’imbarazzo. Mancano ancora un paio di settimane per riassaggiare penne all’arrabbiata e gustare un calice del famoso prosecco dell’amico Meuccio, è un rito che abitualmente conclude i nostri viaggi e alimenta interessanti idee per future avventure, complice l’euforia del momento !
Ora tutti si sono diretti a piedi verso la morena laterale del ghiacciaio, io ho scelto di rilassarmi qui, seduto su di un sasso a godere del poco sole che questa giornata ci sta regalando. Saggezza o stanchezza, forse un tempo non avrei nemmeno pensato di poter rimanere !
Il cielo si sta sempre più scurendo, Max e Bota sono appena rientrati con gli zaini imbiancati dalla neve, si preannuncia una serata gelida. Christian, il nostro amico altoatesino, non ascolta consigli e a metà salita decide di proseguire per la vetta del Malchin a oltre 4000 metri nonostante il tempo.
Per tutti noi è una pazzia considerando le condizioni metereologiche e la poca luce che ancora la sera concede. Siamo tutti stretti uno accanto all’altro nella tenda mensa, fuori nevica e tira vento,
sono le otto e stiamo cenando imbacuccati come se fossimo su di una pista da sci.
Per fortuna la burrasca sembra concedere una tregua, ma la preoccupazione per il nostro compagno è palpabile. Sono le nove e sta calando la notte, uno dei nostri cavalieri sta dirigendosi verso il ghiacciaio con una pila per portare qualche coperta allo sprovveduto alpinista, speriamo non accada nulla di grave. All’improvviso il nostro desaparasido ci sfila dinnanzi ancora carico di adrenalina, gli diciamo che ci ha fatto preoccupare il saperlo là fuori in quell’inferno. Si scusa, dice di essere stato cosciente della situazione ma non convince nessuno: appare evidente la sua mancanza di attrezzatura per fronteggiare quell’improvviso ma prevedibile freddo.
La nostra instancabile cuoca Natasha gli sta scaldando un buon minestrone di verdure, nel frattempo
gli chiediamo se ha avuto paura. La neve fioccava così tanto a quell’altezza che Christian ha faticato a riconoscere persino il suo zaino lasciato qualche centinaio di metri più sotto.
Ci mancava poi il tappo dell’obiettivo della sua gigantesca fotocamera formato 6x7 lasciato sulla vetta e poi ritrovato per costringerlo a tardare il rientro di una trentina di minuti. La cosa che più mi preoccupava erano le sue calzature, un paio di scarpe da ginnastica che nessuno con un po’ di senno consiglierebbe per un’ascensione anche relativamente facile. E’ vero che a indossarle è un sessantenne professore di educazione fisica, ma proprio non era necessario dimostrarcelo a quel modo ! Allentata la tensione ritorna la serenità nel gruppo e ce ne andiamo tutti a nanna confidando nelle proprietà termiche dei nostri sacchi di piuma. Ci vuole più di un’ora per raggiungere quel sufficiente tepore che concili il sonno, là fuori la notte è lunga e gelida e non dà scampo a chi non si è trovato un rifugio: “Death has no mercy in this land”, la morte non ha pietà su queste terre, mi torna in mente il titolo di una vecchia canzone dei Grateful Dead.
L’alba giunge in punta di piedi, un silenzio impressionante è calato su uomini e cose.
C’infiliamo le braghe e le giacche impermeabili per dare un’occhiata e con nostro stupore siamo circondati da un manto bianco che copre ogni forma, unica eccezione gli animali, presenze irreali
su questa tavolozza monocromatica. Il primo pensiero è quello d’immortalare questo incantesimo regalatoci dal cielo, così le sensazioni rimarranno patrimonio del nostro fugace transito.
Il sole per un attimo illumina le vette sopra la nostra piccola tenda, più sotto regnano i toni grigi e il silenzio dei ghiacci eterni, è un’emozione forte come questo risveglio in alta quota.
Occorre essere pratici, così riponiamo ogni cosa e rimuoviamo lo spesso strato di neve scuotendo il telo esterno della tenda. La colazione è pronta, dobbiamo accumulare calorie poichè ci attendono quattro o cinque ore di discesa fino al campo precedente sul fiume. Il nostro ritmo è veloce, sentiamo il calore pervadere il corpo, il morale è alto grazie alla magia di questo bianco incantesimo che rende ogni cosa irreale. Il vero inverno, quello dei -40° e addirittura -60° C deve ancora giungere. Ci fermiamo per pranzare a sacco, il fiume è sotto di noi, occorre ancora un’ora per raggiungerlo e accamparci. Piantiamo la tenda appena in tempo per evitare l’ennesima bufera di neve, neanche scendendo di settecento metri abbiamo tregua, ci attende un’altra gelida notte.
Max si è infilato nel sacco a pelo, io sono nel tendone cucina imbacuccato come non mai, le mani in tasca e un libro appoggiato sul tavolo di fronte a me. Il fiato si condensa a ogni respiro, fa freddo.
Inattesi interrompono la mia lettura un ragazzo francese trapiantato in Svizzera e una ragazza inglese dello Yorkshire. Non si conoscono ma hanno istintivamente varcato la soglia del mio piccolo rifugio confidando nella proverbiale ospitalità mongola. Gelidi spifferi accompagnano il nostro dialogo, penso al caldo che farà in Italia e realizzo d’essere approdato davvero in un altro mondo, diverso ma non meno affascinante. Parlo a lungo del nostro viaggio e dei giorni a venire che ci vedranno attraversare l’infinita distesa del Gobi.
I nostri ospiti hanno raggiunto il campo sul van condotto dall’autista che ha l’incarico di ricondurci a Olgyi, la capitale di questa remota aimag occidentale. Tutto è ottimizzato su questa severa terra che nulla regala. Ecco farcisi incontro il nostro Caronte, un omaccione che si spaccia per electric o forse intendeva electronic engineer, glielo concediamo visto che nessuno di noi può interloquire in russo o in kazako. Si è portato pure il figlio, un ragazzino di quattordici anni che sembra avere la stessa grinta del padre. Domani si parte tutti assieme, ci siamo raffreddati a sufficienza !
Con Max facciamo un bilancio del trek: più di duecento chilometri percorsi in un ambiente splendido sperimentando tutti i climi, soprattutto quelli favorevoli, apprezzando pure l’inatteso epilogo sotto la neve che ci ha regalato un assaggio di vera Mongolia.
E’ andato tutto bene, ci riteniamo ampiamente soddisfatti, vorremmo però raggiungere temperature più miti per capire che l’estate non è ancora finita.
L’indomani ci rimettiamo in marcia congedandoci dai prodi cavalieri che hanno accompagnato per giorni il nostro lento incedere, non c’è tempo per la commozione, chissà mai se ci rincontreremo.
Regaliamo loro qualche indumento confidando di ritornare a temperature più miti.
Dopo avere aiutato la turista inglese ad attraversare il fiume imbocchiamo la pista che ci ricondurrà alla cittadina da cui siamo partiti una decina di giorni orsono, abbiamo tanti chilometri dinnanzi, non arriveremo prima di sera. L’altopiano si mantiene oltre i duemila metri, c’è tanta neve ovunque, la perturbazione dei giorni scorsi era decisamente estesa. Ci fermiamo per vedere le famose aquile kazake, una è appollaiata su di un masso a due passi da una gher. Il nostro autista si fa dare un guanto di cuoio per mostrarci tutta la sua abilità nel maneggiare questo imponente rapace, non dev’essere semplice entrare nelle grazie di quest’esemplare dai quasi tre metri di apertura alare ! La scena è resa ancora più suggestiva dalla neve che continua a cadere accompagnata da raffiche di vento gelido. Ripartiamo e poco dopo il nostro driver ci comunica di avere un serio problema al motore dopo aver compiuto una pericolosa discesa fino a fermare il van in prossimità di un fiume. Non capiamo, cerchiamo di chiedere lumi a Bota ma lei ne sa meno di noi, dice solo che tutto si risolverà. Gli unici preoccupati siamo io e Max, del resto non siamo mongoli ! Regna ovunque silenzio e tranquillità, la scena ha dell’irreale, i nostri compagni stanno imbandendo il tavolino da campeggio sulla distesa innevata, l’autista accende il fuoco per la griglia. Proprio non riusciamo a credere ai nostri occhi, e il guasto all’auto?
Non ci diamo pace, la nostra razionalità tutta occidentale non si rassegna a questa precaria situazione. La soluzione si materializza dopo circa un’ora sotto forma di un van che viaggia in direzione opposta, il nostro autista guadagna a piedi la salita che lo separa dalla pista facendo gesti eloquenti al conduttore del veicolo che poco dopo si ferma: è un suo amico kazako che il destino sembra averci mandato in soccorso ! Lo invitano al nostro tavolo, la carne grigliata restituisce a tutti il buon umore tranne che a Max che, nonostante l’abitudine ad avere un atteggiamento tendenzialmente positivo, questa volta proprio non ha gradito questa sufficienza nel gestire la situazione e soprattutto nel non dare alcuna informazione.
Trasferiamo i nostri bagagli sul nuovo furgone lasciando il nostro van vicino a una gher, siamo salvi. I due autisti però non si rassegnano ad abbandonare il mezzo e sommano le loro capacità riuscendo in breve tempo a riavviare il motore e costringendoci a un nuovo trasbordo.
Rinunciamo a capire, l’importante è essere ancora in viaggio tanto più che il tempo sembra volgere al meglio. Il paesaggio è bellissimo e finalmente i colori s’accendono con la luce del sole: la neve acceca, il verde dei prati più a valle è punteggiato di migliaia di animali al pascolo, l’azzurro dei laghi e il fragore dell’acqua d’innumerevoli torrenti completano la scena.
Una madre ci prega di dare un passaggio al figlio che si è incamminato lungo la pista per raggiungere il villaggio a qualche ora di distanza; ci ringrazia anticipatamente e di cuore per la cortesia. Presto affianchiamo il ragazzino offrendogli un passaggio: avrà una dozzina d’anni, il colore della sua pelle è lo stesso della strada dinnanzi a noi.
Più si fa sera e più la luce radente rende evidenti i picchi rocciosi le cui ombre ormai invadono gli immensi prati di contorni magici. Spesso faccio fermare il van per cogliere questi disegni di luce con il mio obiettivo, sono affascinato da tanta bellezza. Sta tramontando il sole in un trionfo di azzurri e aranci, le nubi rendono ancor più drammatica la fine della giornata.
Siamo scesi di quota, anche l’aria mite ce lo conferma. Presto ci godremo una cena dignitosa al ristorante di Canat, l’organizzatore del nostro trek, poi seguirà un meritato riposo in gher su veri letti, un lusso da Grand Hotel dopo undici notti di tenda ! L’acqua delle docce è fredda, dovremo aspettare domattina per acquisire un aspetto più decoroso, abbiamo cercato di mantenerci dignitosamente puliti in questi giorni sfruttando i corsi dei fiumi in cui c’imbattevamo.
L’indomani riusciamo anche a lavare i nostri indumenti lasciandoli poi asciugare al caldo del già convincente sole della mattina. Abbiamo deciso di dedicare un po’ di tempo alla visita del capoluogo di questa Aimag, Olgii, una cittadina di circa trentamila abitanti quasi tutti kazaki di fede islamica. Bota ci porta a visitare il museo, piccolo ma carino, che ospita flora e fauna locali oltre a testimonianze storiche che esaltano il trionfalismo sovietico e a una collezione di armi, costumi e utensili. Pranziamo alla nostra guest house e nel pomeriggio raggiungiamo la casa della nostra guida per vedere il suo piccolo gioiello, la figlioletta di appena un anno.
Max ha sulle spalle un orso rosa gigantesco con una scritta che recita “ Love” mentre io porto in dono alla madre un bollitore per il riso comprato in un bazar qui accanto. Siamo accolti con grandi ringraziamenti, la mamma di Bota è veramente contenta di rivedere la figlia dopo tanti giorni.
Viviamo per poco tempo l’intimità di questa modesta casa intuendo il semplice modo di vivere dei suoi abitanti; Max si fa prestare filo e ago per aggiustare i pantaloni strappati, io sfoglio con Bota l’album che custodisce le foto di famiglia, mi commuovono le immagini delle sue nozze.
Il marito, un bel ragazzo moro non ancora trentenne ora non c’è più, ha lasciato nella disperazione chi lo amava. Cerchiamo tutti consolazione negli occhi della piccola, è il futuro del mondo.
E’ bello fotografarla tra le braccia della mamma e della nonna, tiene il broncio perché non ha ancora perdonato l’assenza prolungata al genitore e cerca in tutti i modi di sottrarsi ai suoi baci, è la sua piccola vendetta. Mangiamo qualche dolcetto in cucina sorseggiando tè e poi ci congediamo, è già sera. Il tempo vola, la giornata ci è sfilata innanzi senza farsene accorgere. Abbiamo promesso a Natasha e a Bota di portarle al ristorante turco, the best in town. Max è un esperto di questa gastronomia e ci guida nella scelta: Tzatziki, Adanakebab, Kofte, insalata di patate e airan, una crema di yoghurt. Tutto buono, manca solo il vino, siamo tra genti musulmane, non possiamo pretenderlo. Ci rifaremo alla guest house dove ci attende un sorso di vodka, ci è permesso dopo due settimane di astinenza da ogni tipo di bevanda alcolica ! Salutiamo le nostre amiche, domani comincia un’altra avventura verso sud-est, una guida di dieci giorni attraverso le montagne del Gobi e poi il vero e proprio deserto. Dobbiamo girare pagina.
Del resto è prerogativa della vita nomade adattarsi rapidamente a una situazione per poi altrettanto facilmente dimenticarsene per incontrare nuove genti.
E’ l’ultima notte in gher , ci attendono giorni in auto, notti in tenda e pasti frugali.

RIENTRO DAL GOBI

Abbiamo gli zaini pronti da ore, pranziamo e attendiamo fino alle quindici e trenta la partenza, per fortuna ci hanno cambiato mezzo e autista, il primo non era affidabile, il secondo beveva troppo.
Viaggeremo su di una robusta jeep sovietica con un driver che dicono esperto e un presunto cuoco
che altro non è che un ragazzone dall’aria sana la cui principale credenziale è l’essere moroso della figlia del boss, il già citato Canat. Il mezzo è davvero stracolmo, tutto è pronto, il viaggio di ritorno può iniziare. Ci attendono duecentocinquanta chilometri in un paesaggio di vette innevate.
Arriviamo verso le ventuno, è già notte, confidiamo in una sistemazione in gher ma dobbiamo ricrederci, ci attende un campeggio, e così ci portano sul greto di un fiume alla periferia di una cittadina. Max è furibondo, dice al cuoco di scordarsi di prendere l’acqua dal fiume per la cena perché potrebbe essere inquinata e così ci dirigiamo verso un’abitazione chiedendo ai residenti il permesso di riempire una tanica con l’acqua del pozzo. Mentre attendiamo in strada un’auto ci viene incontro suonando il clacson e sbandando, l’autista è senz’altro ubriaco e struscia la sua fiancata contro la nostra ma ha la peggio: il nostro mezzo resiste stoicamente, sembra fatto di acciaio balistico, l’altra auto accusa il colpo ma non si ferma, accelera e scompare. Rimane ora da trovare uno spiazzo per le tende, saliamo leggermente lasciandoci alle spalle il paese e giungiamo su di un terreno sabbioso. E’ buio e solo i fari della jeep ci consentono di montare palerie e teli.
Ceniamo sull’auto, siamo visibilmente contrariati ma dobbiamo portar pazienza, non possiamo iniziare questa lunga trasferta litigando, la notte porterà consiglio a tutti, almeno si spera. Dormiremo bene, il terreno è soffice e le spesse coperte che abbiamo steso sul fondo della tenda lo rendono ancora più confortevole; anche la temperatura è mite, siamo a soli 1400 metri.
Rivolgo lo sguardo al cielo e scorgo una scia luminosa, è una stella cadente la cui luce si staglia con magia su questo sfondo perfettamente nero: sono fortunato, esprimo il desiderio che il tenger, l’infinito cielo mongolo, protegga tutte le creature che abitano sotto di esso e non si dimentichi di noi.
In un attimo è già mattino, della notte nessuna traccia, è trascorsa in un sonno profondo.
Oggi i nostri animi sono più disposti ad accettare la precaria organizzazione del viaggio. Forse è tale per il nostro standard, per quello mongolo è perfetta, chi avrà ragione ? Le nostre aspettative di occidentali sono regolarmente disattese e ogni inconveniente crea disarmonia nel gruppo.
L’alba però vede migliorare l’affiatamento con i compagni di viaggio, vedo Max intento ad aiutare Ax, il cuoco, a sistemare l’attrezzatura sulla jeep, lo scoramento di ieri sera è svanito.
Io sono intento a scrivere il diario dopo tre giorni di silenzio, non posso lasciar passare altro tempo, le sensazioni vanno subito fissate perché non svaniscano nel labirinto dei ricordi.
Partiamo ma subito vi è una sosta per rifornire benzina e cibo, eravamo abituati a far conto sulle nostre gambe e sulle derrate portate stoicamente dal nostro eroico cammello !
Presto siamo di nuovo on the road : la pista è ampia e Ardac, il nostro chauffeur, così lo chiama l’amico cuoco Ax, sembra esperto nell’impostare la giusta velocità per non sentire le innumerevoli ondulazioni dello sterrato e nemmeno rompere le sospensioni procedendo troppo speditamente.
Pranziamo in uno scenario metafisico, sembriamo figure di un quadro di Dalì, un’improbabile tavola è apparecchiata in mezzo a una piana infinita circondata da montagne innevate. Ci sono solo arbusti attorno a noi, indispensabili per tenere legato il terreno che altrimenti si polverizzerebbe rendendo invivibile questo predeserto. Sto sorseggiando un Nescafè mentre Max fuma tabacco kirghiso da una delle tre pipe che si è portato per il viaggio; mi piace questo aroma che si diffonde tutt’attorno che contribuisce a tenere lontano le fastidiose zanzare. Dimenticavo, oggi è ferragosto e abbiamo già pranzato, in Italia sono le otto e mezzo del mattino e la gente si affollerà a breve nei ristoranti. Più tardi, dopo cena, dedicheremo un brindisi con vodka ai nostri amici lontani riuniti
chissà dove a tavola a gozzovigliare !
Riprendiamo il viaggio, ci sono interminabili piste davanti a noi, è un paesaggio che non ha né inizio né fine, nulla è dietro e nulla è innanzi, i colori si alternano dal verde al giallo, dall’ocra all’azzurro.
A sera giungiamo su di una rada prateria, un deserto arbustivo uguale a tanti altri incontrati prima.
Allestiamo il campo per questa notte, l’organizzazione sta decisamente migliorando: Max ed io piantiamo le tende, Ardac e l’apprendista cuoco Ax preparano la cena.
Ho tempo di terminare la lettura del libro comprato in Italia su quella parte della Mongolia che stiamo percorrendo: è il resoconto del viaggio di due amici, uno italiano e l’altro mongolo, compiuto d’inverno in auto su questo innevato altopiano da Ulaanbaatar sino alle estreme propaggini occidentali. Mi è piaciuto, l’ho trovato avvincente e a tratti poetico.
Scrivo anche qualche pagina del mio prezioso diario, ho appena assistito al tramonto con la sua tavolozza di aranci, rossi, rosa e azzurri: che incanto, non posso trattenermi dallo scattare qualche foto per illudermi di fermare questi attimi. La cena ci attende, il gruppo ora sembra ben rodato, l