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Khövsgöl, il mare della Mongolia

Il nome dell’aimag, ma soprattutto la sua notorietà, derivano dal lago Khövsgöl, una delle mete irrinunciabili del turismo in Mongolia. La regione è caratterizzata da una natura spettacolare che esplode nella zona più a nord al confine siberiano con scenari incantevoli di laghi, foreste e montagne.
Qui vivono molte minoranze, tra cui quella degli Tsaatan, i duecentocinquanta Uomini renna che riescono a sopravvivere nella taiga dei monti Sayan. D’estate la regione diventa un eden di verde fiorito, interrotto solo dai corsi d’acqua cristallini, ingrossati dai brevi ma violenti acquazzoni. Un ambiente che molti paragonano a quello svizzero.
D’inverno le temperature precipitano (a gennaio la media è di 24 sottozero) e il paesaggio si congela, in preparazione del nuovo risveglio, atteso da 120 mila nomadi (Khalkh, Buriati, Darkhad, Khotgoid e Tsaatan) e da due milioni di animali, soprattutto pecore e yak. In questa regione i sovietici avevano installato già dagli anni Trenta una manciata di fabbriche (alcune ancora in attività) legate soprattutto al legno, al pesce e all’abbigliamento. Lo scopo non era solo quello di sfruttare le risorse del territorio, ma anche di togliere dallo stato di nomadismo le popolazioni della taiga, offrire un lavoro e un’abitazione stabile, catalogarle e riscuotere le tasse. Solo gli Tsaatan sono riusciti a sfuggire a questo miraggio, mantenendo a caro prezzo la loro condizione di nomadismo estremo. Da Mörön, il capoluogo dell’aimag, transitano molti viaggiatori destinati al lago Khövsgöl, cento chilometri a nord.
Mörön (che si pronuncia con le o molto chiuse, significato: fiume o laguna) ha un aeroporto molto dinamico e affollato, distante 5 chilometri dal centro città. Da Ulaanbaatar ci vogliono circa due ore di volo mentre in fuoristrada bisogna calcolare almeno 1 giorno di viaggio. Fino a Mörön si viaggia su strada asfaltata: è una cittadina polverosa di 35.000 abitanti molto amichevoli, soprattutto i giovani, sempre disponibili a scambiare due parole in inglese con gli stranieri.
Qualcuno segnala negli ultimi tempi episodi di aggressioni e furti: evidentemente il crescente turismo di passaggio per il lago ha portato questo accenno di delinquenza. Qui c’è poco ma tutto: alberghetti, guesthouse, ristorantini, una banca, un ufficio postale, perfino una sauna. Ma soprattutto c’è un mercato gigantesco e fornitissimo, un chilometro e mezzo a nord ovest del centro.
A cinquecento metri dalla piazza principale, che qui chiamano pomposamente “Town square” ma che è poco più di uno slargo, verso l’aeroporto, si può visitare il monastero Danzandarjaa, ricostruito nel 1990: oggi ospita una trentina di monaci. Alle porte della città è nato il nuovissimo e sontuoso Palazzo dei lottatori, vero vanto della gente del posto.

Parco nazionale Khövsgöl nuur
Qui lo chiamano “il mare” per la sua limpidezza ed estensione (134 chilometri per 39) e anche per la profondità, che raggiunge i 262 metri. Il Khövsgöl nuur si pone come un immenso divisorio fra due aree orograficamente ben distinte: a ovest le montagne, dominate da Mönkh Saridag (3.493 m), svettano oltre i 2.500 m, con pareti a strapiombo; a est i rilievi si fanno più dolci, le cime si arrotondano e l’altitudine oscilla fra i 1.700 e i 2.100 m. Il 2 per cento delle acque dolci del pianeta sono contenute nel lago Khövsgöl, pompato da novantasei fiumi immissari e con un solo emissario, l’Eghiin gol (fiume Eg). L’Eghiin gol va poi a confluire nel Selenghe che a sua volta, percorsi un migliaio di chilometri, va a riversarsi nel Baikal. Khövsgöl e Baikal, oggi lontani duecento chilometri, anticamente erano collegati e, secondo alcuni ricercatori, tuttora esisterebbe un canale sotterraneo che unisce i due grandi laghi.
La bellezza del Khövsgöl deriva anche dal contesto, una corona di montagne ricoperte di foreste di larici e betulle. Insieme al Gobi e a Karakorum, il Khövsgöl è la maggiore attrattiva mongola sia per gli abitanti di UB che per i forestieri, che qui possono passeggiare, arrampicarsi, cavalcare, nuotare, remare, pescare o semplicemente bearsi degli stupefacenti scenari dove convivono armoniosamente nomadi, yak e animali selvatici. Nel lago dimorano quattro isole che possono essere raggiunte in barca per trascorrere una splendida giornata, immersi nella natura. Nelle acque trasparenti nuotano salmoni, storioni, trote. Il grande afflusso di visitatori, sempre più numeroso, comincia a destare qualche preoccupazione, tenuto conto della grande importanza come riserve d’acqua dolce del Khövsgöl e del Baikal, non solo per l’Asia ma per tutto il pianeta. Il lago è ghiacciato per buona parte dell’anno (con uno spessore di quasi un metro e mezzo) e si scongela solo nel mese di giugno. D’inverno il Khövsgöl diventa un incredibile corridoio stradale per auto e camion: ogni anno però si registrano decine di incidenti con automezzi inghiottiti dal ghiaccio che cede sotto il peso del traffico. I campi gher stanno spuntando come funghi intorno al lago, dalla propaggine meridionale di Khatgal salendo verso la sponda occidentale. Dall’inizio del Novecento un traghetto a vapore fa la spola tra Khatgal e Khankh, all’estremità settentrionale, pochi chilometri dal confine russo.
È possibile anche campeggiare liberamente lungo le rive del lago, con l’accortezza di mantenere una certa distanza dalle gher dei nomadi per non occupare il loro territorio virtuale. Attenzione, d’estate, alle zanzare e ai tafani, meglio premunirsi. Dal 1992 l’area del Khövsgöl è diventata parco naturale per proteggere l’ambiente: la vegetazione (adonis sibirica, saxifraga hirculus, valeriana officinalis e saussurea involucrata) e la fauna (in particolare leopardo delle nevi, renna, ibex siberiano, castoro, alce, cervo rosso, lupo, orso bruno, lince, cinghiale, cicogna nera, falco pescatore e chiurlo, picchio blu, gru, anatre, cigni). Khatgal era un avamposto manchu nel XVIII secolo, trasformato in città di frontiera e sede di varie industrie nel periodo sovietico e oggi porta d’accesso alle escursioni per il Khövsgöl.
Ci sono vari alberghi, dal più confortevole (il Blue Pearl, circa 30 euro a notte) ai più avventurosi. Numerose anche le agenzie che offrono tour più o meno eco-sostenibili, in jeep, a cavallo, in kayak, in barca, a piedi. La cittadina è punto di partenza per una passeggiata che attraverso due sentieri (uno di dieci chilometri lungo la riva, l’altro un po’ più lungo) conduce a piedi al lago. Sempre a Khatgal si assiste al mesto rito degli Tsaatan (o darkhad che fingono di essere tsaatan) disposti a farsi fotografare in cambio di denaro. Generalmente i viaggiatori si muovono verso il versante occidentale del lago, punto privilegiato per ammirare scorci indimenticabili del Khövsgöl, a Jankhai e Toilogt fino alle sorgenti di Khar-Us. A questo punto la strada diventa quasi impraticabile, se non in sella a uno degli indomiti cavalli mongoli. All’altezza di Jigheliin Am, a metà sponda, parte la pista che raggiunge dopo quaranta chilometri Renchinlkhumbe (vivace villaggio con un campo gher) e dopo ottanta Tsagaan nuur. La sponda orientale è poco frequentata e il motivo c’è: la strada è impervia, distante dal lago e non molto panoramica. Però può essere un’alternativa selvatica all’affollata sponda opposta.

Khoridol Saridag e Darkhadyn Khotgor
Queste due meraviglie disegnate dal tempo si susseguono a ovest del lago Khövsgöl. Prima la catena di Khoridol Saridag, fra Ulaan-uul e Renchinlkhumbe, un gigantesco séparé fatto di montagne coperte da neve perenne che svettano a oltre tremila di quota e custodiscono ecosistemi unici al mondo, tenuti sotto osservazione dai ricercatori internazionali. La loro biodiversità permette la vita di specie endemiche della fauna e della flora. Area protetta dal 1997, ha fra i suoi Guinness anche la cascata più alta della Mongolia, Arsai khürkhree (70 m). A sud di Khoridol Saridag, sulla via fra Khatgal e Ulaan-uul, in cima al passo collinoso di Öliin Khalzan, appaiono i “13 ovoo di Darkhad” a forma di urts, ovvero come una tenda Tsaatan. Il 13 è un numero sacro per l’etnia Darkhad e rappresenta dieci direzioni e tre tempi. Il luogo è stato scelto perché in possesso di grande energia. Fra le province di Tsagaan nuur, Renchinlkhümbe e Ulaan-uul, si distende per 150 km, in un rettangolo irregolare, la depressione di Darkhad (Darkhadyn Khotgor). È a soli cinquanta chilometri a ovest del Khövsgöl ed era un lago altrettanto immenso prima di prosciugarsi e formare la depressione attuale. Oggi l’area, protetta da una catena montuosa, è arricchita da 24 sorgenti termali e centinaia di piccoli laghi e fiumi che garantiscono un’imponente produzione ittica, fra cui il gigantesco taimen, il salmone siberiano, minacciato dalla pesca indiscriminata.
Ancora più sfortunato e perseguitato del taimen, ignaro colpevole di avere carni prelibate e proprietà curative, è il Coregonus pidschan, comunemente denominato Pesce bianco di Darkhad, i cui ultimi esemplari vivono probabilmente solo in quest’area. Entrambe le specie sono a grave rischio d’estinzione. Da qui nasce la sorgente del Selenghe. La taiga del Khövsgöl è rappresentata per il 70% in questa depressione, con i suoi larici siberiani che, nella zona del fiume Kharuu (Kharuuny gol), arrivano a 45 m. Ancora in quest’area possiamo incontrare l’alce, il mammifero più imponente della Mongolia, e le renne bianche, anche loro minacciate sia dal deterioramento genetico, dovuto alla povertà dei necessari incroci, sia alla diminuzione di un lichene, loro alimento fondamentale, che cresce solo in queste zone. Molte le associazioni che si stanno attivando in loro difesa. Amarus in fundo, segnaliamo una funesta presenza di zanzare.

Tsagaan nuur e gli Uomini renna
È molto sottile, quasi indecifrabile, il fascino di questo villaggio fuori dal mondo. Tsagaan nuur, “lago bianco”, prende il nome del vasto specchio d’acqua che costeggia questo strano paese fatto di baracche di legno sparpagliate nella steppa, a ridosso della foresta. È l’ultimo villaggio raggiungibile con i fuoristrada prima di avventurarsi, a cavallo, nella taiga popolata dagli Tsaatan.
È tra le sei zone più proibitive e inospitali del pianeta secondo uno studio universitario americano. Siamo nella propaggine settentrionale della Mongolia, al confine con la Repubblica di Tuva. Nascosti nelle foreste dei monti Sayan, duecentotrenta “uomini renna” sopravvivono da secoli alle minacce più terribili pur di mantenere intatte le antiche radici. Il governo sovietico degli anni 30 ha provato a stanarli, prima, inutilmente, con le armi poi con l’illusione di un lavoro e di una vita sedentaria nel villaggio di Tsagaan nuur, costruito dal nulla proprio con questo obiettivo.
Ma loro non si sono lasciati blandire e hanno continuato a seguire i sentieri invisibili degli antenati, a stretto contatto con un migliaio di renne, che forniscono loro tutto quello che è necessario per sopravvivere, dal latte alla carne, dalle pelli ai riferimenti spirituali (la renna è animale sacro). Per questo i mongoli, un po’ sdegnosamente, li chiamano Tsaatan, “uomini renna”, a sottolineare la loro “selvaticità”. Qui la temperatura scende fino a sessanta sottozero e i lupi minacciano costantemente gli accampamenti, formati da una serie di tende coniche (urts), proprio come quelle degli indiani d’America. Anche usi, costumi e tratti somatici rimandano ai nativi americani e agli inuit, a testimoniare la grande migrazione avvenuta nell’antichità lungo il corridoio boreale. Gli Tsaatan sono di origine turco-altaica e parlano un dialetto che richiama vagamente la lingua turca. Sono molto legati ai riti sciamanici e, anche quando lo sciamano muore, continuano a chiedere riti presso le sue spoglie nascoste nella taiga. Ma il vero rischio di estinzione per gli Tsaatan è cominciato dopo il 1990, quando la Repubblica di Tuva, divenuta autonoma, ha chiuso i confini e gli “uomini renna”, abituati a lunghe migrazioni con le mandrie, sono rimasti imprigionati nei territori mongoli: questa situazione ha portato a una vera e propria crisi spirituale, poiché venivano interrotti i loro sacri sentieri, ma anche a una gravissima minaccia sanitaria.
La riduzione dei loro spostamenti ha costretto le renne a entrare in contatto con escrementi delle greggi e la conseguente epidemia di brucellosi, che ha decimato gli animali e messo a rischio la vita degli stessi uomini. Alcune spedizioni di antropologi e studiosi italiani, fra cui David Bellatalla e Dino De Toffol, hanno permesso a questa meravigliosa etnia di sopravvivere. Ora c’è un’altra minaccia davvero pericolosa: il turismo. Sono sempre di più i viaggiatori stranieri che inseriscono nel loro programma una “visitina” agli Tsaatan. Soprattutto le nuove generazioni di Uomini renna cominciano a mettere in discussione le proprie origini e le antichissime tradizioni. Con i dollari offerti dai turisti possono comprare vodka a volontà nei piccoli empori di Tsagaan nuur, con poca voglia di ritornare agli accampamenti sulle montagne. Una sfida anche alla commovente convinzione di Gombo, il “re” degli Tsaatan, la cui storia poetica e drammatica è raccontata nel libro Uomini renna (Federico Pistone, Edt).
“Dice di avere cinquantatré anni ma il viso graffiato dal gelo e gli occhi velati dalla congiuntivite gli consegnano un fiero aspetto di ottantenne. Quando smonta da cavallo, Gombo è un mezzo uomo che si trascina a compasso sulle gambe arcuate, come un soldatino staccato dal supporto equestre. Appena si rimette in sella, torna a essere un animale mitologico, perfetto… “Il mio popolo”, racconta Gombo, “sa come affrontare il freddo e gli animali della foresta. Parla agli alberi e alle montagne, sa anche leggere e scrivere. Conosce il mondo senza aver mai abbandonato la taiga. I miei figli e i miei nipoti continueranno a studiare, così potranno scegliere il loro destino. Nessuno è obbligato a restare qui, per questo nessuno se ne andrà”.  Nella foto 4 di Federico Pistone, i bambini Tsaatan sulle loro renne

Grotta Dayan Deerkhi (Dayan Deerkhiin agui)
Secondo la leggenda Dayan Deerkhi era uno sciamano così potente da riuscire impunemente a rapire una figlia di Chinggis Khan. Invano il grande condottiero lo avrebbe inseguito fino a questa grotta dove lo sciamano nascose la principessa e si trasformò in una Khün chuluu, una statua-uomo. A tale prodigio Chinggis Khan riconobbe la grandezza, l’autorità e la santità dello sciamano e da allora questa grotta, una delle più grandi della Mongolia, è meta di pellegrinaggio di monaci e fedeli, così come le rovine di un antico monastero situate vicino al fiume Üür. È una caverna situata a 35 chilometri da Tsagaan-Üür, in una zona popolata da una numerosa comunità buriata. La grotta, sacra a buddhisti e a sciamani, è scavata in una montagna calcarea risalente all’era Mesozoica (Nomkhon Uul, Monte Docile). All’interno, a cui si può accedere da tre ingressi, in un’area di circa 450 metri quadri, vi sono acque termali, diverse stanze e un passaggio chiamato “la vulva materna”: attraversandolo si è come rinati, assolti dai propri peccati ed è questo uno dei motivi principali del pellegrinaggio. Dayan Deerkhi agui è circondata da una natura incantevole e dal 2006 è un’area a protezione speciale in quanto luogo sacro.

Olon golyn belchir (confluenza di più fiumi)
È un canto della natura, un angolo superstite di paradiso terrestre dove i fiumi Ider, Bugsei, Delgher Mörön e Chuluut confluiscono e danno origine al Selenghe.
L'Olon golyn belchir è situata 30 km a sud di Tömörbulag e 110 km da Mörön, ovvero due ore di viaggio. Il campo turistico di Tavan gol, in grado di ospitare 40-50 persone, offre un’ampia gamma di attività ricreative: kayak, gite in barca, passeggiate a cavallo, mountain bike, trekking, itinerari personalizzati e, inaspettatamente, per i più curiosi e fantasiosi, la possibilità di osservare il cielo notturno con un telescopio Celestron e ascoltare lezioni di astronomia.
Nella zona, con una breve passeggiata, si incontrano una trentina di “pietre cervo”, megaliti dell’età del bronzo legati a culti sciamanici (raffiguranti principalmente animali con le corna) e una formazione di centinaia di massi ricchi di antiche incisioni rupestri.